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Berat, dove l’Albania salvò gli ebrei. Ora però il piccolo museo rischia di chiudere

Nazir Ago, l'attuale curatore del Solomon Jewish History Museum (afp)
In bilico il destino della piccola testimonianza, di una vicenda storica senza eguali, quella dell'unico Paese dove la popolazione ebraica crebbe numericamente durante l'occupazione nazista. Messo in piedi da un anziano, da poco scomparso, ora ha un futuro incerto
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In Albania c’è un solo museo dedicato alla storia dell’ebraismo. Nel Paese a maggioranza musulmana (70% della popolazione, completano il quadro delle confessioni il 20% di ortodossi e il 10% di cattolici) anche quel piccolo avamposto rischia ora di scomparire. E con esso la straordinaria (e sconosciuta) vicenda di accoglienza che ha contraddistinto il popolo albanese durante la seconda guerra mondiale. A Berat, città a Sud del Paese, c’è appunto un piccolo luogo, il Museo di Salomone, che testimonia come l’Albania sia stato l’unico posto in Europa in cui, nonostante l’Olocausto, la popolazione ebrea sia aumentata durante l’ultimo conflitto mondiale. Grazie al coraggio di famiglie normali, “ricche e povere”, che hanno accolto, nascosto e protetto centinaia di persone durante le persecuzioni tedesche. “La più grande dimostrazione di civiltà e umanità di un paese durante la seconda guerra mondiale” come scrisse Michele Sarfatti nel suo “Gli ebrei in Albania sotto il fascismo. Una storia da ricostruire”.
 
Inaugurato lo scorso anno, è il frutto della passione del 75enne ortodosso Simon Vrusho per la storia locale. Scomparso pochissimi giorni fa, rischia di portare con se anche l’impresa che – fra foto e documenti – testimonia quella vicenda di cui poco o nulla si è saputo fino alla caduta del comunismo nel 1991. L’affitto del locale è infatti pagato solo fino ad aprile ed è impossibile immaginarne la sorte: finora i costi del museo erano stati coperti grazie alla pensione di Vrusho e alle piccole donazioni lasciate in una scatola all’ingresso. Nient’altro, nonostante il governo albanese ricordi ogni anno quei fatti nel Giorno della memoria e abbia loro dedicato anche una mostra nel museo nazionale di Tirana.
 
“La memoria deve avere una casa” aveva detto Vrusho all’Afp qualche settimana fa, pochi giorni prima di morire d’infarto. L’uomo ha trascorso anni ricercando e raccogliendo nomi, documenti, foto, parlando con gli anziani del paese, nel tentativo – concretizzatosi nel piccolo museo – di riannodare i fili che intrecciavano le peripezie di centinaia di persone e che raccontassero le vicende della comunità ebraica insediatasi a Berat nel 16esimo secolo, dopo la cacciata dalla Spagna. Al centro della piccola esposizione spiccano tuttavia le storie di musulmani e cristiani d’Albania che hanno nascosto le famiglie ebree nelle loro case e nei loro scantinati durante l’Olocausto, fornendo loro identità false, certificati di appartenenza religiosa diversa grazie alla collaborazione delle autorità religiose locali e travestendoli da contadini del posto o da parenti sfollati. Moltissimi, infatti, arrivarono dall’estero e le fonti più accreditate parlano di 2.800 persone messe in salvo. Senza dimenticare il rifiuto, da parte del governo albanese, di consegnare i nomi degli ebrei presenti nel territorio all’invasione del 1943 quando i reparti della Wehrmacht presero il controllo del territorio dopo la firma da parte dell’Italia – che controllava il Regno dal 1939 – dell’armistizio di Cassibile. Anche alle autorità italiane, negli anni precedenti, quelle albanesi rifiutarono di consegnare 400 famiglie di ebrei non albanesi e di fatto di applicare le leggi razziali.
 
Come si spiegava, questo tassello di storia – grazie alla quale circa 75 albanesi sono menzionati nei Giusti tra le nazioni, i non-ebrei che senza interessi e al rischio della vita hanno salvato anche un solo ebreo dal genocidio nazista – è stato approfondito solo di recente. Al termine della guerra il regime comunista di Enver Hoxha impose, al pari di molte altre dittature comuniste, una politica di contrasto delle religioni, dichiarando l’ateismo di Stato nel 1967 e vietando dunque qualsiasi confessione.
 
L'ingresso del piccolo museo (afp)

Grazie a queste azioni di eroismo la popolazione ebrea locale, che contava appena qualche centinaia di persone prima della guerra, per alcune fonti appena 200, crebbe a oltre 2mila individui. Secondo quanto si racconta allo Yad Vashem, l’ente nazionale per la memoria della Shoah di Israele, “quasi tutti gli ebrei che vivevano all’interno dei confini albanesi durante l’occupazione tedesca furono salvi, eccetto i membri di una singola famiglia” che fu deportata e sterminata, al di fuori del capofamiglia. Nel Museo Salomone c’è tutto questo e rischia di sparire, come d’altronde la comunità ebraica ridotta su scala nazionale a meno di cento persone: quasi tutti si sono spostati in Israele alla caduta di Ramiz Alia.
 
Alla base di questa incredibile vicenda, caso unico nell’Europa stretta nella morsa di Adolf Hitler, c’è un antico retroterra di tolleranza religiosa, ben visibile anche nella stessa Berat il cui centro storico, insieme a quello di Argirocastro, è stato dichiarato nel 2008 patrimonio dell’Unesco. Anche l’organizzazione dell’Onu racconta che quel “raro esempio di città ottomana ben conservata” testimonia la pacifica convivenza di varie religioni – ortodossia, cattolicesimo, sufismo e sunnismo – nei secoli passati. A questo elemento si aggiunsero alcuni principi tradizionali della cultura albanese come il codice legale consuetudinario, noto come “Kanun”, che all’epoca faceva ancora sentire il suo peso in particolare sul punto della “besa”, l’onore personale del padrone di casa coinvolto al momento della richiesta di ospitalità. L’ospite, il “mik”, diventava dunque sacro e difendere la sua vita diveniva un dovere assoluto della famiglia che lo accoglieva. Anche se, come hanno fatto notare molti storici, il fenomeno riguardò tutti, non solo i musulmani, e in particolare la popolazione urbana. Molti casi simili alla protezione degli ebrei riguardano anche il soccorso ricevuto da diversi militari italiani allo sbando dopo l’8 settembre.