Memorie future: “Atlas” di Pieralberto Valli

Memorie future: “Atlas” di Pieralberto Valli

Cantante, musicista e scrittore. Ex "Santo Barbaro" ora alle prese con il suo nuovo progetto solista. A febbraio scorso, ha rilasciato per Ribéss Records il suo primo album, “Atlas”. Ecco l'intervista che gli abbiamo realizzato, ricca di molte suggestioni. "Forse è arrivato il momento di gettare una luce sulla bellezza che resiste, piuttosto che annoiarci sulla brutalità del presente" ci dice Pieralberto Valli.

Dopo una lunga esperienza con i Santo Barbaro, hai deciso di battere una nuova via. Da dove nasce questa esigenza? Cosa ti ha spinto a continuare il discorso musicale da solo?
Ho un compulsivo bisogno di cambiamento e la musica è il campo in cui questo traspare di più. Gli altri sono uno specchio in cui cominci a delineare il tuo profilo, i tuoi gusti, i tuoi limiti. Poi arriva un momento in cui senti la necessità di mettere da parte quello specchio per capire cosa sei in grado di fare da solo, se tutto quel tempo passato a studiarti ha portato con sé qualche frutto abbastanza maturo da poter essere raccolto.

Il disco è estremamente minimale. Una ritmica elettronica essenziale e un pianoforte accennato. Mai pieno e ridondante, anzi, sembra quasi il silenzioso accompagnamento delle linee vocali. Per certi versi e con le dovute distinzioni, ricorda il tratto stilistico di Navi, album pubblicato nel 2012 coi Santo Barbaro. Ti ritrovi in questo paragone?
Assolutamente sì. Credo fortemente nell’edificazione dei limiti in musica. L’arte fluisce meglio, secondo me, se incanalata in strutture nette e decise, anche a costo di perdere squarci di bellezza. Spesso ci si innamora della propria frivolezza, di un tema che ci solletica l’umore, ma che non è funzionale per la visione che stiamo costruendo. Ogni cosa ha un colore e un peso, una luce e un respiro, e ognuna si poggia sull’altra fino a costruire un quadro, molto spesso carico di inutile bellezza. In Atlas e in Navi il lavoro più complicato è stato stabilire i confini per poi, dall’interno, premere verso di essi.

Passiamo al nome del disco. Atlas è il nome di una divinità greca, è Atlante che regge il peso del mondo. A cosa è dovuta questa scelta?
Sì, Atlas è tante cose: è il nome di una divinità, di un luogo, e della mappa che serve per raggiungerlo. Cercare un luogo è cercare se stessi, è cercare il proprio luogo, le proprie coordinate, la propria geometria. Mentre acceleriamo il passo e corriamo alla disperata ricerca del tempo perduto, rischiamo di lasciar scivolare la mappa che stringevamo tra le mani, così ogni strada diventa possibile, ogni vicolo potenzialmente giusto, ogni incrocio un muro che ci inchioda al presente.

Fosse per me direi che questo disco parla del Tempo. C’è il racconto lontano di una città sommersa, “Atlantide”, c’è il ricordo, poco importa se vero o falso, c’è la frontiera, crinale stabile tra il passato, il presente ed il futuro. C’è “Il rumore del tempo”, il resoconto di ciò che dopo tutto siamo, polvere. Parlaci un po’ di questo Tempo.
Il tempo è impazzito, è accelerato, è in fuga da noi. E noi acceleriamo per raggiungerlo, perdendo noi stessi. Il tempo è la misura che diamo alla vita, alla possibilità della felicità, alla scansione di ogni pezzo di vita che ci ritagliamo e cuciamo addosso. La schiavitù del tempo moderno ha di gran lunga superato quella del lavoro e del denaro. Il tempo misura la nostra finitezza, fisica e morale, il nostro naturale evolvere verso il nulla. E questo nostro sradicamento dalla storia, dalla genealogia che si tramanda di generazione in generazione, non può che riconciliarsi in un nuovo radicamento nella storia, nel nostro nuovo incontro con il mito, con l’archetipo, con l’inconscio. L’Atlantide sommersa in fondo al mare è il ricordo di un tempo in cui il nostro sguardo si volgeva verso l’alto, con tanto terrore quanta speranza, e in cui ci affidavamo a un ordine superiore, superiore al nostro tempo e al nostro spazio.

Riallacciandomi al discorso sul Tempo, vorrei soffermarmi sul futuro. Ci sono molte parole che rimandano a questa tematica: svariati verbi all’interno delle singole canzoni sono coniugati al futuro, lo stesso “Avvento dei futuri” rimanda a questo già-e-non-ancora che è il futuro. “Verrà un tempo e con esso l’uomo”. Anche l’“Esodo” rimanda ad un percorso da svolgere affinché si possa uscire da qualcosa. C’è questa preminenza del futuro rispetto alle altre due dimensioni?
Da sempre attingo gran parte dei riferimenti dei testi alle scritture sacre, e non perché abbia un qualche proposito evangelico. È che rimpiango un tempo che non conosco in cui si attendevano venute messianiche, in cui si confidava nei segni e nei simboli, in cui il Dio della scienza non era ancora disceso tra noi per uccidere i vecchi Dei dell’irrazionale. La mia febbre di futuro è forse nostalgia di futuro, come quando un ciclo si conclude per poter farne nascere uno nuovo. Il futuro in senso cronologico, in senso fantascientifico, non mi interessa. Non mi interessa sapere se andremo su Marte. Mi interessa capire perché non sogniamo più la Luna.

In “Cosa rimane” sento un’eco di ferrettiana memoria. Sarà la ripetizione, saranno i “monaci”, sarà la cantilena. C’è una vaga attenzione per così dire all’“ultimo Ferretti” dei PGR?
Ferretti è un riferimento per tutto ciò che ho detto prima. È l’incontro delle generazioni, è l’uomo a cavallo nel XXI secolo che sarà l’uomo a cavallo del XXIII secolo, perché certe relazioni sono iscritte nella nostra storia molecolare, e non puoi cancellarle in nome di una presunta ragione.

“Frontiera” è una canzone liberamente tratta dall’omonimo brano dei Bancale; non si può parlare di cover perché molto è stato cambiato. Perché credi che abbia senso un’operazione di questo tipo?
Perché ci sono tanti artisti a me contemporanei che ammiro sinceramente, e che sono spesso tanto invisibili quanto me. Quando ho letto il testo di “Frontiera” ho pensato che avrei voluto scriverlo io. Forse è arrivato il momento di gettare una luce sulla bellezza che resiste, piuttosto che annoiarci sulla brutalità del presente.

Ora ti dico cosa mi ha ricordato “La nona onda”. Un pezzetto di Camere separate di Tondelli, te ne cito qualche riga così mi dici se in qualche modo è ciò di cui la canzone parla.
“Tutto nasceva dal mare. E al mare lui era tornato. Il chiarore si fece più deciso. Guardò l’acqua e vide milioni di esseri nascere e giungere alla spiaggia portati dall’onda e poi sparire quando altri milioni stavano già per arrivare. Lui era uno di quegli esseri. Era una piccola cellulare trasparente con un nucleo pulsante. Alla successiva ondata era una molecola e a quella dopo già un entità. Poi un animale, un altro animale ancora – ma era sempre lui, ne era certo. Finché tutto tacque e dal mare non uscì più nessuno. Era nello stesso tempo milioni di vite, ma sempre più una vita sola”.

Onestamente lascio a te il paragone con Tondelli. Però credo di intendere cosa suggerisci. La vita nasce in mare e in mare muore, per poter rinascere. Il battesimo è in mare, come il naufragio. Il mare è un verticale abisso che conserva comunque il senso di una ascesa, di un tuffo nell’inconscio. E poi è un ostinato muro che riporta indietro tutto ciò che pensavi di aver lasciato, di avere perso. È una marea testarda che rifiuta l’oblio, è “sempre lui”, come dice Tondelli, come noi siamo sempre noi. Io ho da sempre usato il mare come primaria fonte di ispirazione, e non c’è giorno in cui non ci passeggio davanti. Perché tutto nasce e nascerà sempre da lì, ciclo dopo ciclo.

Da ultimo, un disco che ti ha accompagnato nella stesura di Atlas.
Ce ne sono stati molti, da Overgrown di James Blake a Is this desire? di PJ Harvey. Ti posso dire però che per il nuovo album sto consumando Yann Tiersen & Shannon Wright e Ghost Tropic di Songs: Ohia.

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