Papelitos
07 Dicembre 2022

La vittoria del Marocco nel segno della Palestina

Lo spirito dei popoli riemerge, anche nel calcio.

Già nel match contro il Belgio, sugli spalti del Al-Thumama Stadium, era apparso uno striscione srotolato dai tifosi marocchini: FREE PALESTINE. Messaggio lanciato al 48′ della partita, un minuto simbolo per una data simbolo: il 1948, anno di fondazione dello stato di Israele e della nakba (in italiano “catastrofe”), l’esodo che porto 800mila palestinesi a lasciare le proprie terre. Ma i riferimenti del Marocco alla causa e allo Stato palestinese sono andati avanti per tutti i Mondiali, anche ieri durante la partita con la Spagna, sulle tribune di un Education City Stadium chiazzato di bandiere palestinesi. Le stesse bandiere comparse nei festeggiamenti marocchini non solo per le strade del Paese arabo ma anche per quelle di New York e Bruxelles, Parigi e Amsterdam, Roma e Madrid.

Di più, la stessa bandiera che è stata sfoderata dalla squadra del Marocco e orgogliosamente mostrata nella festa a favore di telecamera.

Le radici profonde non gelano, direbbe Tolkien. Non solo quelle nazionali ma anche quelle dell’identità araba: le battaglie storiche, quelle in cui si crede e per cui vale la pena continuare a lottare, non vengono dismesse. I marocchini ieri hanno festeggiato il trionfo condividendolo con il mondo arabo: perché «a parte i governi – come ha detto uno di loro al nostro Leonardo Aresi, che ieri ha visto la partita al Royal Marrakech a Centocelle (Roma) – tutti devono sapere che i popoli arabi stanno sempre con la Palestina». E la loro è stata una rivincita pan-araba, una vittoria di un popolo e di una Nazione (in estasi) ancor prima che di una Nazionale.

Video di Leonardo Aresi, dai festeggiamenti marocchini a Roma

Vittoria che è maturata sul campo, in cui il Marocco si è europeizzato solo nella disciplina tattica e nel talento di alcuni suoi giocatori (una menzione speciale per Amrabat, autore di una partita monumentale) ma ha conservato la sua anima e il suo spirito, la sua voglia di lottare contro quello che, fuori dal campo, è un avversario secolare: la Spagna. Una Spagna incartata nell’insostenibile pesantezza del suo tiki-taka, nel suo 77% di possesso palla e nei suoi 1050 passaggi contro i 330 marocchini; in un gioco che sembra più una lenta agonia che un modo per fare gol, come ha detto il CT marocchino alla vigilia della gara. Non solo per gli avversari della Roja ma anche per il pubblico:

«Hanno un possesso palla che danneggia l’avversario ma anche il pubblico. Rodri-Laporte; Laporte-Alba; Alba-Laporte-Rodri; Busquets-Rodri. Tac, tac, tac, tac, tac. Finché, a un certo punto, i giocatori cominciano a stancarsi. Nelle ultime 20 partite, hanno una media di possesso palla del 70%. Lo fanno contro qualsiasi nazionale».

Walid Regragui

Una Spagna che non vince una sfida a eliminazione diretta nei 90 minuti dal 2012 (il 4-0 all’Italia di Prandelli), che ha tirato in porta una volta in 120 minuti e quando è stata costretta a farlo, ai rigori, ha sbagliato tre volte, umiliata infine dal panenka di Hakimi. Squadra noiosa e prevedibile, superata nel suo (ex) gioco innovatore, giovane ma solo sulla carta (d’identità) e che ha perso contro una squadra giovane dal punto di vista storico-calcistico, affamata, creativa ma disciplinata, giunta per la prima volta ai quarti di finale di un Mondiale.

Così dal Nord-Africa arriva una bella bordata al pensiero unico spagnolo (letteralmente, non hanno alternative) del ‘tiki-taka’, ideologia stanca che, da Barcellona, è stata per anni importata nel Vecchio Continente. Forse un colpo di grazia, insieme a una lezione sui rischi che comporta l’ostinazione per il falso nueve. Perché Asensio per 65 minuti al posto di Morata, in una squadra che per oltre un’ora non riesce a calciare in porta, in Spagna ha già fatto partire i processi mediatici; così come la scelta stessa di inserire “a partita in corso” uno dei migliori uomini della spedizione qatariota, il 7 della Spagna, nonché unico attaccante vero e capocannoniere della squadra con 3 gol in 126 minuti.



Comunque, la vittoria del Marocco ci ha ricordato l’essenza stessa e la bellezza dei Mondiali. In una partita che andava molto oltre il campo (almeno per i marocchini), sfida tra due Nazioni che da secoli si davano guerra e battaglia, gli spavaldi nord-africani, dai confini del calcio, hanno spodestato un’istituzione del vecchio calcio europeo: con talento, sacrificio, organizzazione, volontà. C’è in questa vittoria il fascino sportivo dell’underdog, del Davide contro Golia, ma anche quello culturale del popolo oppresso contro il colonizzatore (parte del Marocco è stata protettorato spagnolo dal 1912 al 1956). Il tutto in un trionfo marocchino che, sotto i colori della Palestina, è assurto a trionfo arabo.

Quella di ieri è stata la dimostrazione che i popoli e le Nazioni, malgrado tutto, esistono ancora: con le loro culture, i loro sistemi valoriali, le loro differenze. E che anche nel calcio lo spirito dei popoli riemerge dalle viscere dalla terra: basta una vittoria dell’Algeria perché immigrati di terza generazione, anche francesi di passaporto, mettano a ferro e fuoco le città della Francia. E allo stesso modo che i marocchini di Spagna, anch’essi di residenza o addirittura di passaporto, vivano quello contro le furie rosse come un vero e proprio derby (e la vittoria con una gioia ancora maggiore). Non c’è integrazione e omologazione che tenga.

Una differenza che oggi assume anche i colori della Palestina, in uno scontro di mondi che con l’Europa non potrebbe essere più evidente.

Qui dove la causa palestinese è stata abbandonata anche da chi l’ha sempre portava avanti, tra una vecchia sinistra fantasma di se stessa e una destra cosiddetta ‘sociale’ prontissima a riposizionarsi sotto l’ombrello di Washington. Così, abituati alle battaglie mediatiche e di posizionamento – già pensiamo al Marocco che ha voluto intestarsi la lotta palestinese per essere rappresentante sul campo del mondo arabo, come se fosse un calcolo – non siamo più in grado di capire che le identità, nonostante tutto, rimangono; che le culture rimangono. Che i giocatori del Marocco, come ha scritto Marco Ciriello, “hanno la memoria di appartenersi”.

E che uno dei primi pensieri dei calciatori, uomini e marocchini ancor prima che atleti strapagati, dopo un traguardo storico come quello di ieri sera – la prima volta del Marocco ai quarti, ma anche la quarta per il continente africano – sia stato festeggiare mostrando al mondo quello in cui credono: la bandiera della Palestina. Simbolo della loro storia e della loro identità.

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