Ethos e muthos: la figura dell’eroe.

L’esigenza di dare forma a quella che si è rivelata essere una necessità intrinseca dell’essere umano, cioè l’ethos (morale) si traduce esplicitamente nella creazione del muthos (mito). L’archetipo classico di tutto il mondo occidentale è quello greco, che si traduce in maniera somma nei poemi omerici e, soprattutto, nell’Odissea. In quest’opera, il mito come traduzione della morale, si materializza nella figura dell’eroe per eccellenza, cioè Odisseo (Ulisse). Qui, ancor più che nell’Iliade, il mito si personifica in un eroe totalmente umano, dove la sfera del divino esiste in virtù dell’abilità “dell’uomo dal multiforme ingegno” cantato dalla Musa. Gli dei, in particolare Atena (dea dell’intelligenza), hanno quasi  solo la funzione di non suscitare blasfemia nel pubblico che ascoltava le “favole” della saga orale più nota di tutto il Mediterraneo. L’eroe sembrerebbe, a prima vista, diventare “esecutore” degli ordini superiori di Atena, ma ci accorgiamo che è solo un abile artificio letterario. Con la latinità, nell’Eneide virgiliana, l’apologetica della “gens Julia” fa diventare l’eroe addirittura giustificazione dell’esistenza di uno statuspolitico. In altre parole, assistiamo, per la prima volta, alla propaganda strumentale del mito per il potere. Prima, nell’epoca di Cicerone, bastavano solo le virtù “laiche” repubblicane del ‘pater patriae’, adesso è necessaria una giustificazione insieme mistica e morale al potere. Nel tardo Impero, con l’arrivo di un nuovo sincretismo religioso (vedi i culti militari di Mitra e quelli del cosiddetto “cavaliere tracio”), l’eroe viene rappresentato con i valori tradizionali capovolti, cioè l’etica e il mito diventano parodia di se stessi nel capolavoro di Petronio Arbitro, il Satyricon. Qui, i valori sono rappresentati parodisticamente dall’ostentazione della ricchezza, dall’inutilità della cultura, dalla ricerca del sesso esagerato e, addirittura, del suo culto (vedi Priapo) e dalla rappresentazione della moralità come puro esercizio di ipocrisia. Naturalmente, tutto questo fa apparire come l’eroe, nella società tardo antica, non abbia quasi più bisogno di una dimensione sociale, didascalica ma che, in realtà, cerchi rifugio in una dimensione intimistica che avrà la sua rappresentazione più alta nel Cristianesimo.

Nel primo Medioevo sono le virtù teologali e la presenza della Scolastica che daranno vita agli eroi che si materializzeranno sia nelle saghe dei cavalieri del Graal (tanto care  al Romanticismo) sia in quelle dei cavalieri della “Chanson de Roland”. Il mito adesso perde così le sue virtù “laiche” e civili, care all’antichità greca più pura, per assumere una dimensione fideistica che si esprime nell’eroe che è tale solo in quanto difensore della fede. La grande svolta  la darà Ludovico Ariosto col suo capolavoro cinquecentesco “L’ Orlando Furioso”, in cui la fede diventa pretesto. L’eroe fa propri dei valori tipici di un ethos che appartiene alla sfera dei sentimenti umani (la ricerca della felicità, dell’amore, della gloria attraverso la lealtà e il coraggio) che così assumono caratteristiche universali. E’ evidente, a questo punto, la lezione “laica” del Principe di Machiavelli, dove avviene il totale scollamento tra morale personale e morale politica (in senso letterale). L’eroe diventa così portatore di valori universali, ma che non attengono più alla sfera sociale, ma a quella dell’homo faber rinascimentale. L’etica fatta di valori sentimentali universali, ma che attengono anche al riconoscimento del primato della ragione umana sostenuto nel secolo dei Lumi, si palesa in maniera eclatante prima nell’eroe napoleonico e poi in quello romantico. Forte della certezza della propria intelligenza e consapevole dei propri diritti naturali, l’eroe romantico è colui che lotta anche per le ingiustizie dei popoli oppressi, per la libertà dei regimi autoritari. L’esempio più eclatante lo troviamo negli scritti di George Byron, dove anche la vita stessa dell’autore diventa rappresentazione di sentimenti e di ideali condivisi da un’intera generazione. La vita dell’eroe ha un ethos che si esprime così nella lotta civile, nell’affermazione caparbia del mito che si fa da sé, che si autogenera e che non è imposto dall’alto. Il modello, a questo punto, sembra avere dei richiami ancora all’etica classica. Ma è solo un richiamo lontano e un po' nostalgico, perché alla fine dell’800 Nietzsche userà l’antichità solo come modello stilistico formale ma, in realtà, andrà molto oltre nella concezione dell’eroe. Egli, con la deflagrante novità del super-uomo, cioè colui che va oltre la morale e che se ne costruisce una su misura per sé, sembra distruggere la dimensione dell’ethos e fondare quella nichilistica. Ma la realtà è che egli ha davanti a sé la necessità di affrontare una società nuova, sente l’esigenza di creare una consapevolezza più forte nell’uomo che deve sopravvivere in questo mondo dove, per sopravvivere, c’è posto solo per individui cha hanno la statura morale e intellettuale superiore. 

 

Questo estremo elogio all’intelligenza e alla capacità, diremmo oggi, di leadership, si concretizza nella figura dell’eroe dannunziano. Egli, insieme alle avanguardie futuristiche, è l’archetipo di questa nuova concezione eroica. Non c’è spazio per la fragilità umana tanto amata da Svevo, Joyce e dagli estimatori di Freud. L’eroe è colui che sfida l’ethos, perché il mito deve crearlo egli stesso, per cui non ha bisogno di una morale calata dall’alto. Egli stesso si fa portavoce ed essenza di linguaggi nuovi (uso di neologismi), di imprese mai tacitate, di amore e sesso inesauribili, coraggio portato al limite. In una parola, egli è il Vate, il sacerdote e il profeta di una religione che si autocelebra e autocompiace. Questo mito del ‘900, per alcuni discutibile, ha esercitato il suo fascino per generazioni e, per certi versi, ha rivoluzionato il modo di concepire la vita e di parteciparvi. E’ importante dire che nel ‘900 il mito dell’eroe ha avuto grande importanza ideologica e, oserei dire, pedagogica. Una per tutte, la figura mitica del “Che Guevara”, il guerrigliero che, insieme a Fidel Castro, combatte, nella Sierra Maestra, contro il regime corrotto capitalista a favore di masse agricole sfruttate e che ha avuto un fascino indiscusso per tutta una generazione di ragazzi con l’eskimo. Peccato che, poi, le derive violente del ’68 l’abbiano usato come modello e giustificazione per la lotta armata contro i veri figli del popolo, come diceva Pasolini, che erano le forze dell’ordine. Tutto questo non può, però, che portarci a una riflessione, cioè l’estrema necessità della figura dell’eroe. I valori, quali essi siano di destra o di sinistra, laici o confessionali, hanno bisogno di essere incarnati, resi reali, tangibili, da modelli che riempiono il vuoto esistenziale che attanaglia l’uomo nella sua ansia di ricerca verso una realtà migliore, verso un mondo  non fatto di illusioni consumistiche frutto di una società “liquida” (vedi Bauman) o di un pensiero “debole” (es. Vattimo), ma di qualcosa che ci rende migliori e più consapevoli del valore intrinseco che ogni essere umano ha su questa Terra.

 

Concetta Melchionda

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