Cannes 71: Spike Lee e Lars Von Trier «danno la sveglia» al festival

«BlacKkKlansman» e «The house that Jack built» sconvolgono una edizione finora molto (troppo?) tranquilla

Una scena di «BlacKkKlansman»
15 Maggio 2018 alle 18:54

Due film scioccanti, anche se in maniera molto diversa: ci volevano Spike Lee e Lars Von Trier per dare la sveglia a un festival che finora era corso sui binari di una fin troppo prevedibile «correttezza politica». Eppure «BlacKkKlansman» e «The house that Jack built» sono all'opposto per filosofia: il primo è forse il film più ottimista di Spike Lee, che certo denuncia lo scandalo del razzismo ancora attuale in America, ma lo fa con un accento di speranza per il futuro; il secondo è il film più crudele e nichilista di Lars Von Trier, che mostra un'umanità che sembrerebbe guidata solo da istinti assassini.

«BlackKklansman» di Spike Lee è tratto da una incredibile storia vera, allo stesso tempo inquietante e surreale: quella di Ron Stallworth, un poliziotto nero che agli inizi degli Anni 70 si infiltrò nell'organizzazione razzista del Ku Klus Klan. Ovviamente per riuscirci Ron (interpretato nel film da John David Washington, figlio di Denzel) dovette coinvolgere un collega dalla pelle bianca (Adam Driver): il secondo partecipava di persona alle riunioni del Klan, ma era il primo, con telefonate e documenti scritti, a condurre davvero il gioco. Fino a diventare il capo della sezione locale di Colorado Springs. Una storia incredibile che doveva essere narrata con una buona dose di ironia, ma senza dimenticare che il KKK, oggi in declino, è stata un'organizzazione molto potente per più di un secolo ed è responsabile di centinaia di omicidi e linciaggi. «Il solo fatto che esista ancora» ammonisce Spike Lee «è inquietante e dev spingerci a non abbassare la guardia della lotta contro il razzismo».

Chi invece era "scomparso" e ricompare al festival è Lars von Trier, cacciato nel 2011  con il marchio di "persona non grata" dopo alcune dichiarazioni filonaziste. Il regista danese è stato ora "perdonato" dagli organizzatori, ma fino a un certo punto: il suo film è stato presentato a notte fonda e senza conferenza stampa. Scelta saggia:  "The house that Jack built", con Matt Dillon e Uma Thurman, punta come sempre a scioccare e far discutere; tanto più che il regista l'ha definito "il mio film più brutale di sempre". Il protagonista (Matt Dillon) è un serial killer che esibisce le sue macabre imprese con la farneticante pretesa che i suoi 61 delitti siano "opere d'arte”. Nulla viene risparmiato allo spettatore, dallo sterminio di una famigliola alle torture su donne e e animali (ci lascia una zampa anche un tenero paperotto). Ecco l'uomo in tutta la sua bruttezza, sembra dire Von Trier, irridendo come sempre a ogni aspirazione umana alla giustizia o alla bellezza, paragonate a desideri infantili. Ma l'impressione è che il vero bisogno di fondo del film sia quello di nobilitare i criminali psicopatici come il protagonista intepretato da Matt Dillon, l'unico verso il quale la regia mostra una qualche simpatia. Forse uno psicologo sarebbe d'aiuto...

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