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Ritratto di Girolamo Savonarola (dedicato a Matteo Renzi)

Il Bloc Notes di Michele Magno

Nelle pagine finali della “Storia economica” Max Weber afferma che le profezie, liberando gli uomini dalla magia, hanno creato le basi della scienza moderna e del capitalismo. Certamente il sociologo tedesco non pensava alle profezie apocalittiche di Girolamo Savonarola, crociato contro ogni sorta di mondanità. Sebbene Martin Lutero in persona nel 1520 lo avesse dipinto come un precursore dei riformati, secondo una tesi che risale a Francesco De Sanctis (ripresa, tra gli altri, da Antonio Gramsci) il frate era solo una reminiscenza del millenarismo medievale. Resta però il fatto che egli riuscì a persuadere Firenze, prima città del Rinascimento, ad accoglierlo come suo profeta. A questo interrogativo cerca di rispondere l monumentale biografia del domenicano scritta da Daniel Weinstein (“Savonarola. Ascesa e caduta di un profeta del Rinascimento”, il Mulino, 2013). In un Paese come il nostro, in cui pullulano gli incantatori di serpenti che si spacciano per cybernauti della politica, la sua lettura andrebbe raccomandata nelle scuole. Proviamo a riassumerla in estrema sintesi.

Terzo dei sette figli di Niccolò e di Elena Bonacossi, Girolamo nasce a Ferrara il 21 settembre 1452. Prima di diventare medico alla corte estense, il nonno Michele aveva insegnato alla facoltà di medicina dell’università di Padova. Dopo la sua morte, il quattordicenne Girolamo frequenta la scuola di arti liberali di Battista Guarino. Incline fin dall’adolescenza all’ascetismo, il suo passatempo preferito erano le passeggiate solitarie in campagna. Disgustato dal papa simoniaco Francesco della Rovere (Sisto IV), decide di lasciare la casa paterna e i piaceri della carne. Il 24 aprile 1475 bussa alla porta del convento bolognese di San Domenico dei frati Predicatori e chiede di essere accettato nell’Ordine. Due giorni dopo riceve la tonsura (il taglio di cinque ciocche di capelli) e indossa l’abito monastico: una tunica bianca con la cappa (simbolo di purezza) e un mantello nero con cappuccio (simbolo di penitenza).

Girolamo pensava di diventare un converso, il frate laico tradizionalmente adibito allo svolgimento delle mansioni più umili. Ma il suo ardente bisogno di predicare lo spinge verso il noviziato. Si sottopone così alle sue dure pratiche disciplinari, tra cui l’autosomministrazione di frustate per mortificare il corpo, e poi prende i voti perpetui. Diviene diacono nel maggio 1477. Non prediligeva la filosofia di Aristotele e le dispute dottrinarie lo mettevano a disagio. Non con i sofismi, non con la sapienza, ma con con la semplicità cristiana ci si guadagna il paradiso, ammoniva nel “De contemptu mundi”. Ritenendo la povertà una condizione irrinunciabile, era contrario al diritto di possedere beni comuni conferito all’Ordine dalla bolla papale “Considerantes” (1475). La considerava un cedimento al demonio, alla sua volontà di sedurre la Chiesa con un’opulenza che strangolava le radici della grazia.

Nell’aprile 1482 l’aspirante dottore delle anime, il risoluto cavaliere del Redentore, comincia la sua battaglia contro il “perverso, maligno e scelleratissimo saeculo” proprio in una delle città più laiche dell’epoca. Si trasferisce infatti nel convento di San Marco, cuore pulsante della vita spirituale della Firenze medicea. Nel 1483 pronuncia i suoi primi sermoni quaresimali, in cui deplora l’avidità dei pontefici e incita i fedeli a coltivare l’obbedienza, l’umiltà e la carità. Le sue denunce non risparmiavano malvagi e corrotti, ladri e furfanti, falsi apostoli e fasti dei prelati. Nel 1486, a San Gimignano avverte l’uditorio che era in arrivo “un flagello, o Anticristo, o guerra, o peste, o fame”. È l’inizio della sua predicazione escatologica.

D’altronde, l’arrivo della stampa in Italia nel 1460 aveva reso più facile la diffusione di testi profetici. I più famosi erano quelli dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore e quelli di santa Brigida, la nobildonna svedese morta nel 1373. Nel 1487 Girolamo torna a Bologna per laurearsi in teologia. Sebbene attratto dalla carriera accademica, accetta altri incarichi ecclesiastici a Genova, a Brescia, a Mantova. Giovanni Pico della Mirandola, suo grande estimatore, nel 1490 suggerisce a Lorenzo de’ Medici di favorire il suo rientro a Firenze. Secondo l’insigne umanista, con una leadership autorevole il convento di San Marco poteva svincolarsi dalla giurisdizione opprimente della Congregazione lombarda da cui dipendeva, riacquistando così il suo antico splendore culturale.

Di corporatura minuta e bassa statura, gli occhi luminosi e un’ampia fronte pronta a corrugarsi donavano al frate uno sguardo severo, accentuato dal naso aquilino. Era scuro di carnagione e aveva il labbro inferiore pendulo. Con tono ieratico, spiegava di aver desunto dalle Scritture la sua idea di società: una comunità morale ordinata gerarchicamente. I governanti derivavano il loro potere da Dio ed erano responsabili dinanzi a Lui del benessere materiale del suo gregge. E ai governanti che affamavano i ceti più deboli con le tasse e li costringevano a ricorrere all’usura. riservava le invettive più sprezzanti. Non meno spietato era con i preti avari e lascivi, che violavano il voto di castità e contaminavano i sacramenti con la lussuria e la brama di denaro. Fustigava con parole di fuoco gli scienziati superbi, gli autori di componimenti osceni, i chierici che inquinavano il “Tempio” con la letteratura pagana. Mentre inveiva contro questo sfacelo morale, chi per lui ne era il principale responsabile muore nel 1492. Angelo Poliziano, intimo amico di Lorenzo de’ Medici, racconta che un già agonizzante Magnifico aveva chiamato al suo capezzale il frate per fare ammenda dei suoi peccati, ricevendone per questo la benedizione.

La scomparsa di Lorenzo in aprile e quella di Innocenzo VIII a luglio suonavano come presagi delle sventure che stavano per abbattersi sulla penisola. Il 25 gennaio 1494 il re di Francia Carlo VIII varca le Alpi per impadronirsi della corona napoletana. Ai primi di agosto il suo imponente esercito dilaga nella Savoia e in Liguria. A ottobre si schiera lungo il confine nordoccidentale della Toscana. Il mercoledì delle Ceneri Girolamo sale sul pulpito della basilica di San Lorenzo e annuncia che il giorno del Giudizio stava per arrivare. C’era una sola via di scampo: come coloro che avevano trovato asilo nell’arca di Noè, i fiorentini dovevano rifugiarsi nell’arca del Salvatore e pentirsi. In effetti, la presenza minacciosa di quarantamila soldati francesi preludeva al crollo del regime mediceo. Piero, il successore di Lorenzo, aveva deluso sia gli ottimati, che si aspettavano di riconquistare il potere perduto; sia il popolo, che aveva atteso invano la riduzione di un intollerabile carico fiscale. La Signoria propone pertanto al “bonissimo servo di Dio […] profeta riputatosi, con ciò sia tanto apertamente calamità predicessi” di guidare una delegazione per invocare la clemenza dell’invasore. Il sovrano e il frate si incontrano a Pisa. Dopo un’ora di conversazione privata, la libertà della repubblica non sembrava più a rischio. Nelle stesse ore Piero veniva cacciato da una congiura di palazzo, una folla inferocita aveva trucidato un ufficiale delle imposte e ferito alcuni esponenti della famiglia Tornabuoni. Savonarola non poteva più rimanere in disparte.

Il 17 novembre alla porta di San Frediano Carlo VIII e i suoi baroni vengono accolti da una nutrita rappresentanza di dignitari eminenti. Girolamo, ormai portavoce riconosciuto della rivolta, illustra le richieste della Signoria. Il re ribadisce che non intende rovesciare l’ordinamento repubblicano, ma i suoi ministri non cessavano di conferire con gli ambasciatori di Venezia e Genova, che non nascondevano le loro mire sui territori sottratti al Giglio. In questo clima di sfiducia e di tensione, e allarmati da crescenti episodi di violenza, occupati e occupanti negoziano un accordo che sancisce il trionfo del frate. Esso prevedeva, insieme ad altre clausole, l’abbandono immediato della città da parte delle truppe francesi e il pagamento a Carlo VIII di una somma di centoventimila fiorini.

Il 14 dicembre Savonarola tiene quello che è stato definito il suo “primo grande sermone politico”. Non è vero -afferma- che “li stati non si governano coll’orazione né coi paternostri”, come sostengono i tiranni. Il Maggior Consiglio della Serenissima -aggiunge- poteva essere il modello di più partecipate e stabili istituzioni. A tal fine, i cittadini dovevano riunirsi nelle loro sedici compagnie di quartiere, ciascuna con il suo gonfaloniere, per discutere della miglior forma di governo. Inoltre, nonostante l’ostilità della fazione repubblicana dei Bianchi nei confronti di un provvedimento che rischiava di favorire la fazione medicea dei Bigi, Savonarola propone un’amnistia generale per consolidare la pacificazione della città. Tra vivaci discussioni e forti contrasti, i Piagnoni -come venivano chiamati i suoi seguaci più accesi- alla fine accettano un compromesso. Infatti la riforma costituzionale, approvata il 23 dicembre, contemplava un sistema elettivo per le magistrature più importanti che premiava i notabili, e un sistema di sorteggio per gli uffici minori che tentava di soddisfare le rivendicazioni delle classi popolari.

Guidati da Francesco Valori, i Piagnoni -soprannominati anche Frateschi- erano i protagonisti di martellanti campagne per la moralizzazione dei costumi, in cui spiccava la lotta contro la sodomia, “quello maledettissimo vizio […] che sia sanza misericordia, cioè che tali persone siano lapidate e abrusciate”. Ma una delle più grandi sfide vinte da Savonarola fu con la gioventù della città. Bande di fanciulli molestavano continuamente i passanti, soprattutto le donne, e gli stupri di gruppo non erano rari. Sotto la supervisione di fra Domenico da Pescia, viene preparato un piano di indottrinamento e di rieducazione dei ragazzi dai sei ai sedici anni. Al termine del corso, venivano divisi in squadre con il compito di censurare l’empietà, far rispettare il silenzio in chiesa, dirimere le liti, provvedere ai poveri. Tribunali speciali, poi, dovevano sanzionare con pene corporali le trasgressioni più gravi ed espellere gli incorreggibili. In questa temperie di fanatismo purificatore, nel 1497 Girolamo decide di realizzare un “falò delle vanità”. Settantacinque anni prima Bernardino da Siena aveva introdotto questo rito per simboleggiare la distruzione del peccato. Una gigantesca piramide ottagonale viene eretta a piazza della Signoria. Ogni lato aveva quindici ripiani, e su ogni ripiano erano accatastate “tutte le maledictioni di Carnovale”: immagini e sculture impudiche, giocattoli e strumenti musicali, tendaggi stranieri con riproduzioni di scene licenziose, cosmetici e parrucche. Altri scaffali contenevano “libri di poeti et di tutte le lascivie, latine et volgari”, compresi quelli di Pulci e Petrarca, di Dante e Boccaccio. La mattina del carnevale, mentre dalla processione si levavano canti contro i peccatori, alla piramide torreggiante viene appiccato il fuoco per la gloria di Cristo e per l’ignominia si Satana, “con tanta delizia et gaudio di tutto il popolo”.

Ma la scoperta ad agosto di un complotto per reinsediare Piero de’ Medici aveva aggravato la sensazione dei fiorentini di essere ormai sotto assedio. Stremati dalle carestie e dagli insuccessi militari, dalla disoccupazione e dalla peste, cominciavano a dubitare delle virtù profetiche del frate forestiero, che intanto era stato scomunicato da papa Alessandro VI. Sotto pena di interdetto o “acrioria remedia” (misure più aspre), Rodrigo Borgia esigeva dalla Signoria che l’odioso frate fosse rinchiuso nel suo monastero, proibendogli di predicare o interloquire con chicchessia: l’assoluzione poteva essere concessa solo a Roma, e Savonarola doveva rinsavire e recarsi al suo cospetto. Con i Frateschi ormai isolati e sulla difensiva, gli Arrabbiati (espressione della vecchia oligarchia) e i Compagnacci (il partito più avverso all’imperante rigorismo morale) hanno campo libero e prendono il sopravvento. Il 10 aprile 1498 Girolamo viene condotto con le catene ai piedi al palazzo del Bargello per essere interrogato secondo le procedure dell’Inquisizione.

La tortura era permessa e giudice e giuria erano tutt’uno: i commissari che istruivano il processo, il generale dei Mendicanti Gioacchino Torriani e l’inquisitore spagnolo Francesco Romolino, emanavano anche il verdetto. La mattina del 23 maggio 1498 Savonarola e altri due frati domenicani, Domenico da Pescia e Silvestro Maruffi, vengono impiccati e bruciati nella piazza principale della città che avevano salutato come la Nuova Gerusalemme. Un implacabile interrogatorio e sevizie efferate avevano estorto ammissioni sconvolgenti a ciascuno dei tre. In una dichiarazione scritta, letta da un funzionario comunale davanti a un pubblico attonito e inquieto, fra Girolamo ammetteva che le sue profezie erano falsità dettate dalla sua sfrenata ambizione e sete di potere.

Ascoltando Savonarola nelle turbolente giornate del marzo 1498, in una lettera a Ricciardo Becchi Niccolò Machiavelli lo aveva bollato come un opportunista furbo e disonesto. Più tardi lo avrebbe parzialmente riabilitato, ponendolo accanto a Mosè, Ciro, Romolo e Teseo, i grandi fondatori di nuovi Stati. Ma laddove essi avevano avuto successo perché armati, il frate aveva fallito perché era disarmato. Dato che gli era vietato l’uso della forza, non gli restava che affidarsi alla Provvidenza, concludeva non senza ironia. Anche Francesco Guicciardini, figlio di uno dei capi dei Piagnoni, rifletterà sulla vicenda di Savonarola nella sua “Storia di Firenze”. Ripercorrendo la sua parabola politica, attribuiva a Savonarola il merito di aver impiegato la sua sedicente “autorità divina” per un nobile scopo: salvare la repubblica da una ristretta élite egoista. Ma alla questione se egli “fosse stato un buono e vero profeta”, non dava alcuna risposta. Il tempo “chiarirà el tutto”, pronosticava. Non sarà così.

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