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Cognitivismo Clinico: The legacy of Giovanni Liotti – Editoriale

Giovanni Liotti si definiva un pied noir, qualcuno che appartiene a più luoghi ed è al tempo stesso un perenne esule in patria..

Di Guest

Pubblicato il 22 Gen. 2019

Giovanni Liotti era nato a Tripoli nel marzo del 1945; le vicende della sua famiglia d’origine hanno incontrato la storia del secolo scorso in circostanze peculiari, poiché proprio in quegli anni (tra il 1943 e il 1947) la Libia avrebbe cessato di essere italiana.

Sandra De Biase, Marianna Liotti, Enrico Costantini, Maurizio Brasini

 

Gianni (come lo chiamavano colleghi e amici) si definiva un pied noir – cioè qualcuno che appartiene a più luoghi ed è al tempo stesso un perenne esule in patria – facendo riferimento a questo suo tratto identitario che lo aveva reso un infaticabile e inquieto “costruttore di ponti” fatti di conoscenze condivise e unificanti. Fondatore insieme a Vittorio Guidano nel 1973 della Società Italiana di Terapia Comportamentale (SITC, poi divenuta SITCC con l’apertura alla prospettiva cognitivista nel 1981), lungo tutto l’arco della propria attività professionale ha sempre mantenuto un vivace e a tratti battagliero dialogo non soltanto con le diverse anime del cognitivismo italiano, ma con ogni orientamento scientifico ed epistemologico in cui ravvisasse un potenziale contributo alla comprensione del funzionamento dell’essere umano.

Un’opera conoscitiva che per Gianni non poteva esprimersi se non nella relazione, attraverso la ricerca di quei momenti di condivisione del significato dell’esperienza che chiamava “intersoggettività”, ponendola al vertice dell’espressione della nostra comune umanità. La sua poderosa produzione scientifica, più tutto il tempo intangibile dedicato a incontrare allievi e colleghi in giro per l’Italia e all’estero (partecipando ai convegni, insegnando e offrendo supervisione), e non da ultimo la sua cinquantennale attività clinica con i pazienti, sono tutte espressioni di un’unica opera fondata sulla curiosità intellettuale, sull’attenzione al prossimo, sulla generosità, sull’autenticità, sul rigore e sull’onestà, che costituisce un esempio e un lascito per chiunque intenda dedicarsi alla nobilitazione della condizione umana attraverso l’incontro e il dialogo.

Nel suo ultimo anno di vita Gianni era sopravvissuto a un ictus che inizialmente pareva dovesse segnare immediatamente il suo destino, e aveva invece ripreso a speculare sulla coscienza attraverso gli insegnamenti della Divina commedia; sembrava lui stesso ritornato da un viaggio dantesco e nei suoi discorsi riverberavano, insieme ai temi propri del Gianni scienziato, anche le sue ben note passioni filosofiche e letterarie, e una sensibilità religiosa e contemplativa che solo le persone a lui più care avevano conosciuto fino a quel momento, in qualcosa che rammentava da vicino il concetto di “sintesi personale” al quale era tanto affezionato. Attorniato dai suoi familiari e dagli amici più cari, e quasi volando oltre la sua stessa condizione, accoglieva i suoi ospiti senza mai stancarsi di onorare la parola “amico”, e con generosità offriva loro intuizioni e riflessioni personali insieme ad aneddoti e storie, pagine di narrativa, scene di film, poesie. Uno di questi racconti era tratto da un vecchio libro che descriveva le vicende di un medico italiano in Libia nella prima metà del Novecento. C’era, in particolare, un passaggio nel quale Gianni non nascondeva la propria commozione, riguardante l’amicizia tra il vescovo (italiano e di origini modeste, coltissimo e prima che vescovo monaco francescano) e il pascià (arabo e di stirpe nobile, illetterato e amante delle donne) di Tripoli:

Non avevo mai incontrato due uomini che fossero, in superficie, più direttamente opposti nel temperamento, ma raramente mi ero imbattuto in un’amicizia tanto profonda e intima. […] Un giorno, mentre stavo aiutando il vescovo a sistemare i propri libri sugli scaffali, gli annunciai che avevo finalmente capito perché lui e il pascià erano amici così stretti; dissi che la loro amicizia era un’amicizia tra francescani. Lui continuò a sfogliare le pagine di un volume che teneva in mano come se stesse cercando lì la risposta da darmi. Dopo alcuni momenti di silenzio, chiuse il libro e disse in tono brusco, quasi seccato: “Lei si esprime male non solo in arabo, ma anche in italiano. Dovrebbe sapere che un musulmano non può essere un frate cappuccino, e che io stesso sono troppo poco degno della veste che porto per potermi definire francescano. Ma supponiamo pure di lasciare San Francesco fuori dalla questione: è troppo al di sopra delle nostre miserabili preoccupazioni. Il pascià è un uomo di gran cuore e di umiltà esemplare, che pratica le tre virtù canoniche in maniera mirabile, pur seguendo la legge di un capotribù che non fu mai un profeta. Se, d’altra parte, io ho avuto il privilegio di conoscere la Verità, è per grazia di Dio e non per mia virtù. Ho imparato molto da quest’uomo; è per questo che siamo amici. (Denti di Pirajno A (1955). A cure for Serpents: a Doctor in Africa, pp. 154-155. Andre Deutsch)

La storia dell’amicizia tra due uomini che, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e culturali, si riconoscono simili e amici suggerisce a tutta prima un dato autobiografico, l’incontro con John Bowlby, il quale, nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte, nel 1990 dichiarava:

[Liotti] è uno dei pochi terapeuti cognitivi che prende in considerazione lo sviluppo. Ma una volta che un terapeuta cognitivo pensa evolutivamente e in termini di processi inconsci e coscienti, egli è in sintonia con uno psicoanalista come me (…). La terapia cognitiva che rappresenta Liotti e la terapia psicoanalitica che rappresento io convergono. Come chiamarla, non so (Tondo L (2011). John Bowlby Interviewed by Leonardo Tondo. Clinical Neuropsychiatry 8, 159-171.)

Tuttavia, a parere di chi scrive, non è soltanto o principalmente questo dato autobiografico a rendere conto del perché Gianni abbia inteso condividere questa sorta di parabola del vescovo e del pascià con i suoi amici nel suo ultimo anno di vita. Il termine inglese legacy è difficilmente traducibile, perché sta a indicare un’eredità o un lascito, ma soprattutto un dono sul quale si fonda un legame da onorare (legatus era chi veniva inviato in una missione governativa per delega dal senato romano). Il presente numero di Cognitivismo Clinico è appunto dedicato all’eredità scientifica e culturale di Giovanni Liotti, ed è stato concepito in questa accezione di legacy.

Per questo, il gruppo romano dei suoi più stretti e affezionati collaboratori e allievi ha lasciato spazio ad altri amici e colleghi, alcuni più prossimi, altri più distanti nello spazio o nel tempo o come prospettiva teorica, ma tutti accomunati da un dialogo vitale e mai sopito con Gianni e con il suo pensiero, nonché da un profondo senso di amicizia che rispecchia lo spirito del racconto del vescovo e del pascià. Nel ringraziare ancora una volta e sentitamente tutti gli autori che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero, ci rivolgiamo ai lettori nella speranza che – in particolare i più giovani – possano, a partire magari da questi spunti, approfondire la conoscenza dell’opera di Giovanni Liotti e negli anni a venire ravvivare il suo lascito culturale continuando a condividerne le intenzioni e lo spirito.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Denti di Pirajno A (1955). A cure for Serpents: a Doctor in Africa, pp. 154-155. Andre Deutsch.
  • Tondo L (2011). John Bowlby Interviewed by Leonardo Tondo. Clinical Neuropsychiatry, 8, 159-171
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