Edizione n° 5338

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La farrata (a farrete)

AUTORE:
Franco Rinaldi
PUBBLICATO IL:
15 Febbraio 2018
Manfredonia // Ricordi di storia //

Manfredonia, 15 febbraio 2018. L’origine della Farrata, rustico sipontino forse unico in Italia, si perde nella notte dei tempi. Il farro dal latino “far farris” fu il primo grano coltivato dagli antichi pastori nomadi del Medio Oriente. Pianta frumentaria che cresceva spontanea e poi coltivata, decantata nei loro scritti dal poeta greco Omero e dai poeti latini Orazio e Ovidio, macinata e ridotta in farina fu per secoli cibo per intere popolazioni. Il farro nel tempo fu sostituito dal grano e si diffuse nella coltivazione dell’Italia meridionale poiché più resistente alla siccità. Al tempo dei romani il Sacro Farro utilizzato per i riti propiziatori offerti agli Dei era utilizzato anche per i matrimoni tra le famiglie patrizie, che venivano celebrati offrendo agli sposi una focaccia di farro. Questi mangiandola consacravano la loro unione. Sicuramente Siponto poi divenuta colonia romana, prima e dopo il cristianesimo ha sempre mantenuto tra le sue ricette culinarie quella della farrata. Tale rustico “afrodisiaco” tramandato da oltre duemila anni è diventato nel tempo a Manfredonia il simbolo del Carnevale Sipontino. Nel ‘700, da documenti storici “Cibario delle Clarisse”(1764-1790) che ho consultato presso l’archivio storico diocesano sezione di Manfredonia, che ha sede nell’ex monastero delle clarisse di Santa Chiara, era consuetudine delle suore di clausura (che non solo durante il Carnevale ma fino a Pasqua) preparare le golosissime farrate. Tra le pietanze del mese di febbraio, le monache, erano solite mangiare il bollito di maiale, sanguinacci, sciroppati e sorbetto. Il venerdì sempre pesce, mentre la domenica “maccaroni” (maccheroni). Il mercoledì delle ceneri era di rigore cibarsi con il pesce. Con l’inizio della Quaresima, la domenica che si festeggiava in loco “a pegnète”, le monache non mangiavano più carne ma baccalà a mezzogiorno mentre la sera broccoli stufati.

INGREDIENTI UTILIZZATI PER PREPARARE LA FARRATA
Farina di grano duro per preparare la sfoglia, ricotta di pecora, grano cotto, menta maggiorana, sale, pepe, cannella e una indoratura di tuorlo d’uovo sulla calotta del rustico.

PREPARAZIONE (ANTICA RICETTA)
Si prende una certa quantità di grano, dopo averlo pulito dalle impurità, lo si inumidisce con acqua e lo si schiaccia col pestello nel mortaio. Dopo averlo fatto asciugare, lo si ventola per togliere la crusca. Successivamente prima di sottoporlo a cottura, lo stesso grano viene sciacquato parecchie volte, fino a quando l’acqua utilizzata, piena di glutine, viene fuori pulita. A questo punto inizia la cottura fino all’ ebollizione per continuare, a fuoco lento, per un tempo complessivo di circa due ore. Quando il grano è ben cotto si butta del sale per dargli sapore e lo si scola, per togliere “a sciòttele” (l’acqua glutinata). Dopo questa operazione il grano cotto lo si mette in un contenitore di creta, anticamente “a sckafarole” a raffreddare. In questo recipiente si prepara l’impasto, mettendo ricotta di pecora, un po’ di cannella, menta maggiorana “a mènda majuréne salvagge” (che cresce spontanea nel nostro agro, oggi coltivata), e poi sale e pepe. Il tutto viene mischiato dando origine ad un farcito di pasta da mettere nelle sfoglie. Queste, vengono preparate sulla spianatoia “u tavelire” con farina di grano duro ben impastata, versando acqua tiepida al fine di ottenere una pasta morbida. La stessa pasta, lavorata a mano in modo energico per qualche minuto , viene spianata con un mattarello “u lainature”, fino ad ottenere un sfoglia sottile, che viene tagliata in forme rotonde. A questo punto il ripieno preparato viene messo sulle sfoglie e, dopo averlo chiuso con un’altra sfoglia, la calotta superiore viene indorata con un pennello unto con tuorlo d’uovo sbattuto mischiato con una parte di albume. Le farrate preparate, si sistemano in lamiere “i ramore” di latta, cosparse di olio e farina e, un tempo si portavano al forno che funzionavano a legna. Si gustano calde e se cotte nel forno a legna, dopo la sfornata del pane, assumono una fragranza particolare. Oggi le farrate vengono cotte per la maggior parte in forni elettrici, ma conservano sempre la stessa bontà di quelle di un tempo.

Era usanza a Manfredonia un tempo, tradizione scomparsa da anni, assistere al passaggio di ragazzini infarinati, che prima del sorgere del sole, percorrevano le strade cittadine, celando in ceste di vimini il prezioso “farro” la cui vendita veniva promossa al grido: “Farréta caveta uè…uè di vole i farréte”. Tradizionalmente il periodo della produzione della farrata iniziava il giorno di S.Antonio Abate e si protraeva fino al 20 di maggio (a conclusione della pesca delle seppie). Molti pescatori locali un tempo barattavano con i pastori abruzzesi le seppie con la ricotta e il formaggio. Altro baratto dei pescatori di Manfredonia con i pastori abruzzesi era “l’erva curalline” (un’alga rossa della flora marina del nostro Golfo) che veniva raccolta durante l’estate, essiccata al sole, e conservata in sacchi di iuta. “L’erva curalline” veniva scambiata con ricotta e formaggio con i pastori abruzzesi. Questi deponevano negli abbeveratoi “l’erva curalline” fatta seccare al sole che serviva per purgare le pecore che in questo modo producevano più latte. Oltre alle farrate le nostre massaie preparavano per i loro figlioli “i perruzzile”, piccole farrate a forma di mezza luna. Dopo il 20 Maggio i pastori riportavano le loro greggi sulle montagne dell’Abruzzo e, poiché la ricotta non veniva più prodotta , con questa ricorrenza finiva la preparazione delle farrate in loco. Va ricordato, altresì, per la storia della transumanza, che i pastori abruzzesi che svernavano con i loro ovini nei nostri pascoli, prima della tosatura e prima di partire per le montagne dell’Abruzzo lavavano le pecore nel nostro mare lungo la costa.

**Informatrici e informatori per il presente articolo che ho intervistato negli anni ‘70: Gaetana Vitulano detta “Ninette Ciucchetille” decana tra le pastaie sipontine nel ‘900; Addolorata “Dulerete” Vitulano figlia di “Marietta Ciucchetille” (Maria Vitulano) popolare pastaia sipontina nel ‘900; sempre nel secolo scorso, Maria Lorenza Scuro detta “Marietta a rosse” brava artigiana di farrate; Addolorata Amoruso detta “Mennozze”, nota massaia e produttrice di squisite farrate; Gaetano Vitulano pescatore e armatore detto “Nasone” figlio di “Marietta Ciucchetille”(Maria Castriotta).

A cura di Franco Rinaldi, cultore di storia e tradizioni popolari

Foto in allegato

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1 commenti su "La farrata (a farrete)"

  1. manca l’annotazione di leggere questo articolo dopo pranzo… per resistere alla tentazione di doverne assolutamante mangiare.

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