La decifrazione della scrittura cuneiforme

La scrittura cuneiforme nacque circa cinquemila anni fa tra i sumeri, nelle terre dell’attuale Iraq. Dopo ben tre millenni cadde nell’oblio, finché nel 1857 se ne annunciò la decifrazione

Poteva contare su più di cinquecento segni costituiti da tratti a forma di cuneo. Tali segni potevano essere letti come una o più sillabe, oppure una o più parole. Come avevano potuto gli assiri inventare o leggere qualcosa del genere? Nel 1857 quattro specialisti, ognuno per conto proprio, riuscirono a decifrare un medesimo testo assiro, scritto in caratteri cuneiformi e mai pubblicato fino ad allora. Eppure una simile esperienza non dissipò i dubbi su quella strabiliante scrittura.

Di Gudea, signore di Lagash, sono conservate diverse statue con iscrizioni cuneiformi, come quella dell'immagine. 2141-2122 a.C.

Di Gudea, signore di Lagash, sono conservate diverse statue con iscrizioni cuneiformi, come quella dell'immagine. 2141-2122 a.C.

Foto: Musée du Louvre / RMN-Grand Palais

Il successo del tentativo, portato a termine dalla Royal Asiatic Society, e poi la conferma ufficiale della decifrazione della scrittura cuneiforme, non persuasero gli scettici, che non la ritenevano una vera e propria scrittura ed erano in maggioranza. Tra questi figurava, agli inizi del XX secolo, il drammaturgo August Strindberg che, sbigottito da come veniva letto e insegnato il cuneiforme, esclamò: «Giovani, non studiate l’assiro perché non è una lingua, è uno scherzo! Guardate questo semplice segno XXXX: si direbbe un dito che avverte dei pericoli del ghiaccio o indica i bagni pubblici […] Questo piccolo segno si legge così: as, dil, til, tili, ina, ru, rum, salugub, simed e tal. Ci credete? Ah, ma può avere perfino altri valori e significati! Eccoli: aplu = figlio; Ahur = Assur; êdu = unità; nadânu = dare. Vi sembra possibile?». Effettivamente ancora oggi gli assiriologi continuano ad affermare e a insegnare che quelli sono alcuni dei significati del piccolo segno cuneiforme. Affermazioni del genere non solo suscitavano la perplessità dei non addetti ai lavori, ma permettono anche di capire perché l’assiriologia, ovvero la scienza che studia il passato del Vicino Oriente, rimane ancora oggi una scienza enigmatica.

Segni cuneiformi

La scrittura cuneiforme degli antichi mesopotamici ricorreva a due tipi di segni: quelli che simboleggiavano parole, i logogrammi, e quelli che rappresentavano i suoni, i fonogrammi. Inoltre si serviva di un gruppo particolare di segni, i cosiddetti determinativi, che indicavano l’ambito semantico a cui apparteneva una parola; ad esempio, il segno che indicava una città si scriveva davanti ai nomi delle città, e il nome di un dio o di una dea era in genere preceduto dal segno “divino”.

Ma la complessità della scrittura cuneiforme dipende soprattutto dai diversi significati che poteva ricoprire uno stesso segno, ed era questo che faceva dubitare Strindberg: lo possiamo leggere come una o più parole e anche come una o più sillabe. Non solo, una stessa sillaba si può scrivere con segni diversi.

Perché un solo segno poteva essere scritto in modi differenti? Perché proveniva da un grande repertorio originario di segni che rappresentavano parole, come accade con il cinese o con i geroglifici egizi. Il parroco irlandese Edward Hincks era uno dei quattro assiriologi a cui la Royal Asiatic Society di Londra aveva consegnato il testo assiro che tutti riuscirono a decifrare. E quella sfida puntava proprio a dimostrare all’incredula opinione pubblica che era possibile decifrare il cuneiforme mesopotamico, come già avevano fatto alcuni specialisti anni prima nella tranquillità dei loro studi.

L'apadana di Persepoli, un recinto di 3600 m2, era la sala per udienze dei sovrani achemenidi, il cui impero fu l’ultimo a utilizzare la scrittura cuneiforme

L'apadana di Persepoli, un recinto di 3600 m2, era la sala per udienze dei sovrani achemenidi, il cui impero fu l’ultimo a utilizzare la scrittura cuneiforme

Foto: José Fuste Raga / Age Fotostock

A tale successo avevano contribuito in modo decisivo le indagini dello stesso Hincks, la cui conoscenza dei geroglifici egizi aveva dato un enorme vantaggio rispetto ai “rivali”. Tuttavia, il primo passo che gli permise di riuscire nell’impresa non fu merito suo. Per capire come ebbe inizio l’affascinante avventura dobbiamo viaggiare indietro nel tempo, sino all’antico impero persiano degli achemenidi, conquistato da Alessandro Magno nel IV secolo a.C.

I testi di Persepoli

Per quasi duecento anni, da Dario I ad Artaserse III, i monarchi persiani avevano ordinato d’incidere i testi commemorativi sulle scoscese pareti rocciose e su oggetti di pietra e metallo in versioni trilingue: persiano antico, elamitico e babilonese. Le due ultime lingue erano scritte in cuneiforme mesopotamico, mentre la prima ricorreva a un cuneiforme più semplice, il persiano, che utilizzava un numero minore di segni, 42 in tutto.

Tali iscrizioni erano conosciute in Europa sin dal XVII secolo: i diplomatici e i viaggiatori che avevano visitato le rovine di Persepoli, l’antica capitale degli achemenidi, avevano già dato notizia di quelle strane scritte e avevano riprodotto alcuni testi. Ma solo nel 1802 il tedesco Georg Friedrich Grotefend, professore a Göttingen, riuscì a decifrare la versione in cuneiforme persiano.

L’utilizzo di un numero ridotto di segni suggeriva che potesse trattarsi di una scrittura di tipo alfabetico. Il successo dell’impresa poggiò quindi su tre ipotesi. La prima: le iscrizioni dovevano essere relazionate ai re persiani. La seconda: in quei testi i monarchi persiani dovevano essere menzionati con qualche titolo onorifico, soprattutto con quello di “re dei re”. La terza: gli scienziati già conoscevano i nomi e le genealogie dei re achemenidi, perché Erodoto li aveva menzionati nella sua opera, e questi dovevano quindi comparire nella scrittura cuneiforme.

In aiuto di Grotefend accorse la conoscenza della religione predominante nella Persia achemenide: lo zoroastrismo, con Ahura Mazdā come dio supremo. L’insieme di testi sacri del culto, l’Avestā, era ormai conosciuto in Europa perché nel 1771 l’aveva tradotto e pubblicato l’orientalista francese Anquetil-Duperron. Il testo era in stretta relazione con l’avestico, una lingua scomparsa nel IV secolo a.C. ma ancora utilizzata dai sacerdoti. Verso il III secolo d.C. i testi dell’Avestā cominciarono a essere tradotti e commentati in pahlavi, lingua che dopo la conquista islamica dell’Iran nel VII secolo andò in declino e scomparve, dando origine alle lingue persiane moderne. Grotefend, per esempio, trovò il titolo reale khshehioh nell’edizione dell’Avestā di Duperron e identificò un gruppo di segni cuneiformi con la parola “re”.

Si può quindi affermare che l’avestico e il pahlavi ebbero nella decifrazione del cuneiforme persiano lo stesso ruolo che rivestì la lingua copta, una reliquia dei tempi faraonici, nella decifrazione dei geroglifici egizi.

Testo legale relativo a un’eredità scritto su una tavoletta conservata nella sua “busta” di fango. XIV-XII secoli a.C.

Testo legale relativo a un’eredità scritto su una tavoletta conservata nella sua “busta” di fango. XIV-XII secoli a.C.

Foto: Dea / Album

Una volta identificati i segni cuneiformi che corrispondevano ai titoli reali e ai nomi dei sovrani, i ricercatori avevano a disposizione un numero sufficiente di significati fonologici per iniziare la decifrazione del persiano antico. Questo passaggio ci porta a Bīsutūn, nelle vicinanze dell’antica città iraniana di Hamadān. Tra i fattori che condizionano il successo di una decifrazione vi è la quantità di testi a disposizione. La circostanza che gli assiriologi avessero un volume di materiale sufficiente la dobbiamo a Henry Creswicke Rawlinson, un altro dei quattro orientalisti che nel 1857 accettarono la sfida della Royal Asiatic Society di Londra.

La vocazione di Rawlison

Inviato in Persia nel 1833 quale ufficiale della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, il giovane Rawlinson rimase affascinato dal cuneiforme non appena trovò le prime iscrizioni trilingui degli achemenidi. Le due che erano incise nella roccia del monte Elvend, vicino Hamadān, risvegliarono subito la sua vocazione: nell’aprile del 1835 aveva già riprodotto su carta le sue versioni nelle tre lingue. Pochi mesi più tardi scoprì il monumento che il re Dario aveva fatto scolpire sull’alto della roccia di Bīsutūn, coperto di testo cuneiforme. Non si trattava di un’iscrizione breve, come la ventina di righe di Elvend, bensì di centinaia di righe, che in teoria avrebbero potuto permettere la decifrazione completa di quelle misteriose scritte.

Per copiare la monumentale iscrizione trilingue di Bīsutūn, Rawlinson impiegò ben dodici anni, sia a causa dell’inacessibilità della fonte sia a causa delle missioni militari che dovette portare a termine in quel periodo. La versione in cuneiforme babilonese fu l’ultima che trascrisse, e venne pubblicata solo verso la fine del 1851. Grazie alla lunghezza della trascrizione, Rawlinson confermò e consolidò la decifrazione del cuneiforme persiano formulata da Grotefend. Tuttavia, ammise di non comprendere il testo in lingua babilonese: «Credo che sia ancora lontano il giorno in cui saremo capaci di leggere e capire le iscrizioni babilonesi e assire», scriveva nel 1847. Non era strano, perché nel I millennio a.C. si usavano più di 600 segni cuneiformi a Babilonia e in Assiria.

L’impressionante monumento di Bīsutūn, sul lato di una parete scoscesa, ha al centro un rilievo alto trenta metri e lungo sei in cui compare Dario mentre calpesta un presunto usurpatore, il mago Gaumāta

L’impressionante monumento di Bīsutūn, sul lato di una parete scoscesa, ha al centro un rilievo alto trenta metri e lungo sei in cui compare Dario mentre calpesta un presunto usurpatore, il mago Gaumāta

Foto: Jean-Michel Coureau / Getty Images

Ciononostante, quello stesso anno Hincks aveva già decifrato la struttura del cuneiforme assiro-babilonese, del quale si avevano sempre più testimonianze grazie agli scavi del britannico Austen Henry Layard nella capitale assira di Nimrud (Iraq). A partire dal numero di segni e dal raffronto tra le diverse grafie per indicare uno stesso nome proprio, Hincks aveva intuito che a Rawlinson era sfuggito qualcosa: ovvero che, come si è detto, uno stesso segno poteva rappresentare sia una parola sia una sillaba. Hincks aveva capito pure che una sillaba poteva essere scritta sia con un unico segno sia con la combinazione di due segni, come “dur”, che si poteva indicare con un segno dal significato “dur” o con l’unione di due segni sillabici, “du” e “ur”.

Le due possibili grafie cuneiformi erano servite a scrivere il nome proprio del re Nabukudurriusur, ovvero Nabucodonosor. Edward Hincks non identificò solo il nome del famoso re babilonese, ma lesse anche in quelle stesse iscrizioni la prima parola comune in babilonese:anaku.

Grazie alle sue conoscenze d’ebraico vi riconobbe il pronome personale della prima persona singolare, “io”, giungendo all’importante conclusione che il babilonese, come l’assiro, apparteneva alla grande famiglia delle lingue semitiche. Queste ultime si scrivevano senza specificare le vocali, cosicché il babilonese utilizzava diversi segni per scrivere sillabe come “ba”, “bi”, “bu”, “ab”, “ib”, e “ub” (le lingue semitiche avevano originariamente solo le tre vocali a, i, u). Una tale scoperta favorì straordinariamente la comprensione della grammatica babilonese. Ma il lavoro di Hincks non era finito qui. Una delle sue principali scoperte fu capire che i babilonesi usavano due stili di scrittura: il monumentale, su muri e statue, e il corsivo, sulle tavolette di argilla. La comparazione dei due stili avrebbe permesso grandi progressi nella decifrazione.

Lo stesso Rawlinson avrebbe più tardi ammesso che quella scoperta aveva avuto maggiori ripercussioni sulla decifrazione di quanto non lo avesse fatto la sua trascrizione di Bīsutūn. A sua volta, Layard consegnò a Hincks i suoi ritrovamenti perché traducesse i testi di Nimrud e Ninive. Una tavoletta attirò l’attenzione di Hincks: un antico libro in testo assiro, una lista di sillabe che corroborava i diversi valori dei segni (come diverse sillabe e parole diverse).

La scrittura cuneiforme richiedeva un lungo periodo di apprendistato per gli scribi come quelli rappresentati in questo rilievo assiro. VII secolo a.C. British Museum, Londra

La scrittura cuneiforme richiedeva un lungo periodo di apprendistato per gli scribi come quelli rappresentati in questo rilievo assiro. VII secolo a.C. British Museum, Londra

Foto: Werner Forman / Gtres

La scrittura cuneiforme richiedeva un lungo periodo di apprendistato per gli scribi come quelli rappresentati in questo rilievo assiro. VII secolo a.C. British Museum, Londra

 

 

Fu il britannico William Henry Fox Talbot a proporre alla Royal Asiatic Society, nel marzo 1857, di far tradurre un’iscrizione cuneiforme a quattro eruditi – Hincks, Rawlinson, il francese di origine tedesca Jules Oppert e lo stesso Talbot. Un tribunale indipendente e imparziale nominato dalla Society avrebbe poi controllato le quattro traduzioni.

Il verdetto, emesso il 29 maggio 1857, dava fede delle «coincidenze piuttosto notevoli che presentavano le diverse traduzioni». La data commemora la decifrazione del cuneiforme assiro-babilonese, alla quale sarebbe seguita quella delle lingue che si erano succedute nel Vicino Oriente dal III millennio a.C.

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