Fëdor Michajlovič Dostoevskij, l'uomo che scrisse dal sottosuolo

Considerato uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, Fëdor Dostoevskij dovette affrontare la deportazione forzata in Siberia, dove venne a contatto con un’umanità molteplice e sofferente. L’esperienza gli avrebbe consentito di forgiare personaggi immortali e capolavori indimenticabili

Fëdor Michajlovič Dostoevskij in un ritratto di Vasilij Grigor’evič Perov del 1872. Galleria Tret’jakov, Mosca

Fëdor Michajlovič Dostoevskij in un ritratto di Vasilij Grigor’evič Perov del 1872. Galleria Tret’jakov, Mosca

Foto: Pubblico dominio

«Nei ricordi di ogni uomo ci sono certe cose che egli non svela a tutti, ma forse soltanto agli amici. Ce ne sono altre che non svelerà neppure agli amici, ma forse solo a sé stesso, e comunque in gran segreto. Ma ve ne sono infine di quelle che l’uomo ha paura di svelare perfino a sé stesso, e in ogni uomo perbene si accumulano parecchie cose del genere». È questo uno dei passaggi più famosi tratti dalle Memorie del sottosuolo (o Ricordi dal sottosuolo, 1864) di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, scrittore russo nato a Mosca duecento anni fa, l’11 novembre 1821.

Con i suoi romanzi – i capolavori Delitto e castigo, Le notti bianche, L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov, solo per citarne alcuni – Dostoevskij si è imposto quale uno dei massimi referenti nel panorama letterario mondiale di tutti i tempi, acutissimo indagatore dell’animo umano nelle sue viltà e nelle sue dolorose fragilità, così come nelle sublimi aspirazioni e nella ricerca del bene. Ben prima di Freud e della sua indagine tra gli abissi della mente, Dostoevskij seppe penetrare nelle profondità della psiche di criminali e di principi, d’inetti e di prostitute, degli umiliati e dei potenti, tratteggiando un mosaico di personaggi indimenticabili nei quali ancora oggi chiunque può scorgere rassomiglianze, debolezze e verità, a volte inconfessabili.

Il protagonista di Memorie del sottosuolo, uomo accidioso e tormentato, conduce al limite le riflessioni sulla coscienza, chiedendosi se siamo «convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?». Ecco enucleate alcune tematiche che segneranno la produzione dell’autore, e la sua vita: il ruolo della coscienza, l’eterno contrasto tra la disperata aspirazione al bene, nonché alla brama di vivere, e lo sprofondare nel sottosuolo del dolore. E il romanzo segnò infatti uno spartiacque nella creazione dello scrittore, che di lì in poi arriverà a dare voce ad assassini megalomani come Rodion Romanovič Raskol’nikov, a giovani demoniaci come Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin, a seminaristi innocenti e compassionevoli come Aleksej Fëdorovič Karamazov.

Dostoevskij si mosse nel fango della coscienza umana, e in pochi riuscirono a esprimere con una simile abilità le domande che l’uomo continuamente si pone e a cui cerca di dare una risposta. Probabilmente parte dei suoi personaggi non sarebbe esistita con una tale complessità se lo stesso autore non avesse sofferto una vita travagliata e intensa, segnata dalla prematura morte del padre, dall’epilessia e, soprattutto, dalla deportazione in Siberia.

I ghiacci della Siberia ritratti nel quadro 'I corvi devono tornare a casa' (1872), di Aleksej Kondrat’evič Savrasov. Galleria Tret’jakov, Mosca

I ghiacci della Siberia ritratti nel quadro 'I corvi devono tornare a casa' (1872), di Aleksej Kondrat’evič Savrasov. Galleria Tret’jakov, Mosca

Foto: Pubblico dominio

Le idee dei salotti pietroburghesi

Erano quelli gli anni del potere autocratico degli zar Romanov, che sino allo scoppio della rivoluzione del 1917 regnarono nella sterminata Russia su un popolo spesso ridotto alla miseria – solo nel 1861, per esempio, verrà abolita la servitù della gleba. Ma erano anche anni di fervore, in cui negli ambienti colti di Mosca e di San Pietroburgo circolavano idee progressiste e liberali.

Il giovane Dostoevskij, nato a Mosca da un padre medico dispotico e autoritario e da una madre religiosa e benestante, s’iscrisse a ingegneria militare a San Pietroburgo per poi lasciare gli studi e dedicarsi alla letteratura. Si fece subito notare per i primi romanzi come Povera gente (1846), in cui già compariva l’attenzione agli oppressi della società che avrebbe contraddistinto le opere successive. Grazie alla precoce fama Dostoevskij si avvicinò a uno dei salotti illuminati dell’epoca, quello del giurista Petraševksij, che il venerdì raccoglieva attorno a sé diverse persone per divulgare le idee del socialista utopico francese Fourier. Sebbene vi si presentasse come semplice uditore, un giorno un appena trentenne Dostoevskij lesse in pubblico una lettera polemica con cui il critico letterario Belinksij indirizzava al famoso scrittore Gogol’ una critica feroce per le sue posizioni ortodosse e autocratiche. La lettera, considerata ormai un classico della stampa progressista e socialista del XIX secolo russo, portò però Dostoevskij sul patibolo.

Ritratto di Dostoevskij all’età di 26 anni. Opera di Konstantin Aleksandrovič Trutovksij. Museo statale della letteratura, Mosca

Ritratto di Dostoevskij all’età di 26 anni. Opera di Konstantin Aleksandrovič Trutovksij. Museo statale della letteratura, Mosca

Foto: Pubblico dominio

La condanna e la deportazione

Il giovane venne infatti arrestato, processato e condotto davanti al plotone di esecuzione il 22 dicembre 1849. Erano appunto gli anni del regime degli zar, e qualsiasi dissenso comportava repressioni di ogni sorta. In quell’occasione lo zar, Nicola I, aveva in serbo per i suoi nemici politici un destino forse peggiore della fucilazione: i condannati erano ormai schierati, bendati e pronti davanti al plotone quando all’ultimo istante giunse la grazia. In realtà già da giorni la loro sorte era stata decisa, eppure Nicola I aveva preferito umiliare il gruppo di Petraševksij facendogli provare il terrore della morte. Di un simile terrore rimase traccia indelebile nella vita e nella salute nervosa già precaria dell’autore.

Scampato quindi alla condanna, venne comunque deportato e costretto ai lavori forzati nella temuta Siberia, dove per secoli finirono gli oppositori del potere, zarista prima e stalinista poi. Nella fortezza di Omsk (a duemila chilometri da Mosca), in un clima ferocemente ostile, Dostoevskij visse per quattro anni, e poi venne arruolato in modo coatto in un battaglione di Semipalatinsk, vicino al confine cinese. Proprio dall’esperienza siberiana Dostoevskij avrebbe ricavato l’humus, e il fango, dell’umanità, vivendo a stretto contatto con spietati assassini, prigionieri politici e derelitti della terra. Da lì trasse l’ispirazione per molti suoi romanzi e rifletté sulla possibilità del male e del bene, della religiosità e della redenzione.

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Gli ultimi anni

Una volta tornato a San Pietroburgo nel 1859, sebbene provato nel fisico e nel morale iniziò a comporre i suoi grandi capolavori, contraddistinti dall’introspezione, dal dialogo psichico e dalle riflessioni sulla morale e sulla vita. Alcuni di loro riuscì a portarli a termine anche grazie all’aiuto della seconda moglie, Anna Grigor’evna Snitkina, sua stenografa e devota compagna. Tempestato dal lutto di parenti e di due figli, Dostoevskij scrisse incessantemente, pure per saldare i debiti di gioco, e negli ultimi anni della sua vita si avvicinò sempre più alla fede religiosa, in una crisi mistica che avrebbe segnato anche un altro grandissimo scrittore russo, Lev Nicholaevič Tolstoj.

Anna Grigor'evna, la seconda moglie di Dostoevskij e sua stenografa

Anna Grigor'evna, la seconda moglie di Dostoevskij e sua stenografa

Foto: Pubblico dominio

Pur nella sofferenza e nella malattia, continuò ad amare la vita, al pari dei suoi più tribolati personaggi, e confessò nei diari che «nonostante tutte le perdite e le privazioni che ho subito, io amo ardentemente la vita, amo la vita per la vita e, davvero, è come se tuttora io mi accingessi in ogni istante a dar inizio alla mia vita [...] e non riesco tuttora assolutamente a discernere se io mi stia avvicinando a terminare la mia vita o se sia appena sul punto di cominciarla: ecco il tratto fondamentale del mio carattere; e anche, forse, della realtà».

La sua esistenza giunse però a una vera fine il 28 gennaio 1881, nella casa pietroburghese che ora è un museo a lui dedicato. Accanto al capezzale, ancora una volta, la moglie Anna. A Dostoevskij, uomo che attraversò in pieno le repressioni e il pensiero della sua epoca, e che li rielaborò in uno stile originale e “moderno”, si sarebbero poi ispirati numerosissimi artisti, che in lui avrebbero intravisto non soltanto un immenso scrittore, ma pure un filosofo, un innovativo precursore della psicanalisi, un modello artistico. In diverso modo le sue opere avrebbero influenzato romanzieri e pensatori come James Joyce, Jean-Paul Sartre, Ernest Hemingway, William Faulkner, Orhan Pamuk, nonché registi del calibro di Luchino Visconti, Bernardo Bertolucci, Woody Allen o Darren Aronofsky. Eppure personaggi come il turbato Raskol’nikov e la dolce Sof’ja Semënovna Marmeladova di Delitto e castigo (1866) o ancora l’ingenuo principe Myškin dell’Idiota (1869) continuano a vibrare nei cuori e nella mente di qualsiasi lettore, da ormai più di centocinquant’anni.

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