Lalibela, le mitiche chiese rupestri dell'Etiopia

Nel XVI secolo nella zona etiope di Lalibela i portoghesi trovarono un complesso di chiese scavate nella roccia unico al mondo

Dopo la caduta del potente regno di Aksum, intorno al 960 l’Etiopia sprofondò in un’epoca buia. Questa fase terminò soltanto duecento anni più tardi, esattamente nel 1181, con l’ascesa al trono dell’imperatore Gebre Maskal Lalibela. La vita di questo re della dinastia Zagwe si snoda tra il mito e la storia.

Secondo la leggenda, alla nascita del principe uno sciame di api circondò il corpo del bambino senza lasciare alcun segno. Allora la regina madre esclamò: «Le api sanno che sarà re!» e chiamò il figlio Lalibela, che significa “le api riconoscono la sua sovranità”. Il fratello maggiore del principe, Habrav, ne fu geloso e ordinò di avvelenare il giovane, ormai diventato un rivale. Lalibela sprofondò in un sonno mortale e fu portato da alcuni angeli in cielo, dove osservò delle strane costruzioni. Dio ridiede la vita al giovane principe a patto che questi costruisse nella capitale del regno chiese simili a quelle che aveva intravisto in sogno.

Patto tra Dio e il principe Lalibela. Manoscritto. XIX secolo

Patto tra Dio e il principe Lalibela. Manoscritto. XIX secolo

Foto: Lebrecht / Aurimages

Quando fu incoronato re, Lalibela ordinò l’edificazione di undici chiese monolitiche collegate da un intricato sistema di tunnel sotterranei. Si diceva che fossero state costruite in soli 24 anni grazie all’aiuto degli angeli, che di notte continuavano il lavoro degli uomini. Al di là della leggenda, gli esperti non sono ancora riusciti a spiegare come sia stato possibile costruire con tanta precisione queste chiese composte da un solo pezzo di roccia.

Luogo inaccessibile

Le chiese furono costruite nella città di Roha, a quel tempo capitale del regno di Zagwe, che fu ribattezzata Lalibela in onore del re. Il luogo è oggi una città monastica completamente isolata a 2.630 metri di altezza, circondata e protetta da una barriera naturale di montagne alte più di 4.000 metri nel cuore degli altipiani a nord dell’Etiopia, nella regione degli Amhara. Fino a poco tempo fa Lalibela era un luogo praticamente inaccessibile e arrivarci era un’impresa: per raggiungere la città sacra erano necessari circa due giorni di viaggio a dorso di mulo. Fu questa la sfida che dovettero affrontare i viaggiatori portoghesi che nel XVI secolo fecero conoscere questo luogo agli europei.

Chiesa di san Giorgio. Intagliata in un unico, gigantesco blocco di pietra e con la pianta a forma di croce greca, questa chiesa è uno degli edifici più importanti di Lalibela

Chiesa di san Giorgio. Intagliata in un unico, gigantesco blocco di pietra e con la pianta a forma di croce greca, questa chiesa è uno degli edifici più importanti di Lalibela

Foto: Toni Espadas

Chiesa di san Giorgio. Intagliata in un unico, gigantesco blocco di pietra e con la pianta a forma di croce greca, questa chiesa è uno degli edifici più importanti di Lalibela

 

 

Dal XII secolo era credenza diffusa in Europa che in qualche zona dell’Estremo Oriente ci fosse un regno cristiano situato nelle terre da cui provenivano i re Magi e governato da un misterioso personaggio noto come Prete Gianni. Molti governanti europei inviarono spedizioni oltre i confini dell’Armenia e della Persia per incontrare questo regno leggendario, finché nel XIV secolo le ricerche si concentrarono in Africa orientale, più concretamente in Etiopia. Allora nota con il nome di Abissinia, era un regno cristiano i cui imperatori si consideravano discendenti della mitica regina di Saba. Le sue genti praticavano il credo monofisita, secondo il quale in Gesù è presente solo la natura divina e non quella umana.

Alla fine del XV secolo i portoghesi decisero di stabilire in Etiopia una base operativa per i viaggi verso l’India. Nel 1520 Emanuele I di Portogallo inviò una spedizione, di cui ci è arrivata testimonianza grazie a uno dei suoi componenti, padre Francisco Álvares, che si avventurò in quelle terre allora quasi sconosciute. Nel suo libro Verdadeira informação das terras do Preste João, Álvares fornì agli occidentali la prima descrizione dettagliata delle chiese di Lalibela, di cui fino ad allora erano arrivate solo vaghe informazioni.

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Il sepolcro del re

Tra gli altri dettagli, Álvares annotò le dimensioni di tutte le chiese di Lalibela e dichiarò che gli edifici di culto scavati nella pietra erano talmente tanti che era impossibile immaginare l’esistenza di un complesso simile in un’altra parte del mondo. Il religioso scrisse che la chiesa detta “del Golgota” era stata scavata a picco nella roccia e che la volta, o la parte più alta del tempio, era retta da cinque colonne, di cui una al centro. Il soffitto era liscio come il pavimento e le pareti erano piene di finestre e opere di ebanisteria curate come l’argento lavorato da un orafo.

La chiesa di san Giorgio (Bet Giyorgis) è forse la più conosciuta tra quelle di Lalibela. La pianta a forma di croce crea dodici facciate e le conferisce un aspetto simile a una torre

La chiesa di san Giorgio (Bet Giyorgis) è forse la più conosciuta tra quelle di Lalibela. La pianta a forma di croce crea dodici facciate e le conferisce un aspetto simile a una torre

Foto: Toni Espadas

La chiesa di san Giorgio (Bet Giyorgis) è forse la più conosciuta tra quelle di Lalibela. La pianta a forma di croce crea dodici facciate e le conferisce un aspetto simile a una torre

 

 

Álvares riferì anche che all’interno della chiesa scolpita nella roccia c’era la tomba in cui era sepolto Lalibela, l’imperatore che aveva ordinato la costruzione dei templi ed era venerato dal popolo come un santo. Inoltre, i monaci locali avevano riferito all’uomo che i santuari erano stati scavati nella roccia in soli 24 anni. Il cappellano portoghese scrisse anche che gli etiopi mostravano grande rispetto e reverenza nei confronti delle chiese. Raccontò che quando i pellegrini arrivavano davanti alla porta si toglievano le scarpe ed entravano tutti scalzi, imperatore compreso.

Notò inoltre che al posto delle campane erano appese lunghe pietre, larghe all’incirca un palmo e spesse quattro dita. Quando venivano colpite con sassi più piccoli, producevano un suono udibile da lontano e che, ignorandone la provenienza, si poteva scambiare per quello delle campane. Secondo il suo racconto durante la messa i fedeli rimanevano in profondo silenzio: nessuno rideva o chiacchierava, nessuno sputava né permetteva ai cani di entrare. Temendo che i compatrioti non credessero alle meraviglie che aveva visto, Álvares dichiarò nel suo libro: «Non voglio scrivere oltre di queste opere perché, se aggiungo altro, temo nessuno mi crederà e verrò accusato di falso […] Ma giuro davanti a Dio, alle cui mani mi affido, che tutto ciò che ho scritto è vero e che la verità va ben oltre quello che ho scritto».

La chiesa di Maria (Bet Maryam) è considerata una delle più affascinanti di Lalibela ed è quella che conserva il maggior numero di pitture. Le pareti e le colonne sono ricoperte di raffigurazioni e motivi geometrici

La chiesa di Maria (Bet Maryam) è considerata una delle più affascinanti di Lalibela ed è quella che conserva il maggior numero di pitture. Le pareti e le colonne sono ricoperte di raffigurazioni e motivi geometrici

Foto: Danita Delimont / Alamy / Aci

La chiesa di Maria (Bet Maryam) è considerata una delle più affascinanti di Lalibela ed è quella che conserva il maggior numero di pitture. Le pareti e le colonne sono ricoperte di raffigurazioni e motivi geometrici

 

 

Nel 1564 un altro esploratore portoghese, Miguel de Castanhoso, narrò il suo viaggio nella terra di Prete Gianni, dove dalla cima di una montagna vide alcune chiese impressionanti intagliate in un solo pezzo di roccia. Stando a quanto gli dissero gli etiopi, il conquistatore musulmano Ahmad ibn Ibrahim al-Ghazi, detto “il Mancino”, aveva cercato di trasformare le chiese di Lalibela in moschee, progetto che non era riuscito a portare a termine. Ciononostante, secondo un cronista musulmano dell’epoca, “il Mancino” distrusse i tabot – repliche delle Tavole della Legge che Mosè custodiva nell’Arca dell’alleanza – e le croci cristiane conservate all’interno delle chiese, e saccheggiò alcune di esse portando via tappeti, sete e oro.

Tedeschi e italiani

Durante il XIX secolo gli esploratori europei visitarono la città sacra di Lalibela e descrissero nuovamente le chiese monolitiche, aggiungendo immagini e piantine dettagliate. Tra questi studiosi si distinsero il tedesco Gerhard Rohlfs e i francesi Raffray e Simon. Tuttavia fu solo nel 1939, in piena dominazione italiana, che l’archeologo, architetto e storico dell’arte Alessandro Monti Della Corte scrisse il primo trattato completo su tutte le chiese di Lalibela. Della Corte le descrisse come immense, raffinate e architettonicamente uniche e le definì il più grande tesoro del cristianesimo ortodosso etiope.

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