Faber e la storia

Piccole e grandi storie nei brani di Fabrizio De André

Nel suo smisurato canzoniere Faber s’insinua tra le epoche della storia alla ricerca delle umane miserie rivelando una notevole capacità narrativa dei fatti del passato, dalle epoche più antiche fino alle ansie della Guerra fredda e vicissitudini del mondo moderno

È assai raro trovare una discografia di un cantautore così traboccante di rimandi a fatti o personaggi del passato come quella di Fabrizio De André. Da Nuvole barocche (1961) a Dolcenera (1996), in oltre tre decenni di fervida attività di compositore, la narrativa storica non solo affiora ma attraversa e anzi pervade il canzoniere dell’artista, rivelando la sua straordinaria abilità nel mescolare il racconto dei fatti del passato e la poesia. Al pari di Marc Bloch che nella sua Apologia (prima edizione 1949) scrive che «il bravo storico è come l'orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda», Faber s’insinua tra le epoche della storia alla ricerca delle umane miserie, offrendo coi suoi versi profonde meditazioni sulla condizione umana, sul tempo e sulla storia intesa come patrimonio di esperienza e conoscenza. Questa vuol essere una rapida e parziale carrellata di alcuni di quei testi.

Il cantautore genovese Fabrizio De André in una fotografia scattata nel 1977

Il cantautore genovese Fabrizio De André in una fotografia scattata nel 1977

Foto: Pubblico dominio

Memorie affioranti

Se esisteva una regola compositiva per De André era quella della collaborazione giacché «io credo che nessuna cosa possa nascere da una persona che viva in modo solitario». L’esempio più calzante di questa ineluttabile socialità della scrittura sta nel processo compositivo dell’album La buona novella (1970): «Io mi sono letto i vangeli apocrifi e c’erano ventisette persone […] che mi raccontavano tutti contemporaneamente il loro modo di considerare questo personaggio, che poi era Gesù Cristo […] Quindi io non l’ho scritta da solo. Non si scrive mai da soli». Secondo Faber si scrive per fantasia, che però va corroborata da fatti nuovi, o per «“memorie affioranti” che a volte ti vai a rinfrescare sui libri».

Catechismo non allineato

Come per lo storico di professione anche per il cantautore la verità affiora nell’intreccio delle testimonianze, nella contrapposizione di opinioni. Il Testamento di Tito (1970) ne è la dimostrazione. Faber fa snocciolare a Tito, il ladrone buono che venne crocifisso insieme al Cristo, tutti i dieci comandamenti dati a Mosè sul Sinai per come egli stesso li violò, tutti eccetto quello che impone di non ammazzare. Ne venne fuori una sorta di «catechismo non allineato», come lo ha definito lo scrittore e saggista Walter Pistarini, che mostra l’altra faccia della medaglia, ovvero «dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha» affermò il cantautore genovese.

Miché e il sottoproletariato

Il primo brano scritto per intero da De André è Ballata del Miché, pubblicato nel 1961 su 45 giri. Influenzato nello stile musicale, nella melodia e nella narrazione dal grande cantautore e poeta francese Georges Brassens, De André si limita a mettere in musica un fatto di cronaca che aveva toccato profondamente la sua sensibilità. Tra il 1958 e il 1963 oltre 1milione e 300mila meridionali abbandonano le proprie case per trasferirsi nel Nord Italia: uno di questi è Michele Aiello che approda a Genova. Ma la società chiusa ai nuovi arrivati lo pone ai margini e a Michele non rimane che aggrapparsi unicamente all’amore per Marì. Tuttavia «qualcuno, forse più ricco di lui, aveva tentato di portargliela via. Lui lo aveva ucciso. Gli avevano dato vent’anni di galera» avrebbe rivelato lo stesso Faber.

La fine della vicenda sta tutta nella seconda strofa della canzone: «Stanotte Michè / S’è impiccato a un chiodo perché / Non poteva restare vent’anni in prigione / Lontano da te». Se per i suicidi vigeva, e ancora dovrebbe valere, la tacita regola giornalistica di una trattazione breve e a fondo pagina, De André raccolse la notizia elevandola addirittura ad “attacco” e dunque “manifesto” della propria carriera. Faber si rivolge a quel sottoproletariato del quale si curavano in pochi «tanto meno i partiti tradizionali, anche perché erano fonti molto malsicure di voti, di consenso. Ce ne occupammo noi, come movimento libertario e dopo, molto dopo, il movimento radicale» dichiarò l’artista.

L'impiccato. Disegno di Victor Hugo del 1854

L'impiccato. Disegno di Victor Hugo del 1854

Foto: Pubblico dominio

Leggi anche: Fabrizio De André, una voce in direzione ostinata e contraria

Antieroi

Dalle piccole alle grandi storie, De André è profondo osservatore e storiografo dei fatti del proprio tempo e le melodie ne descrivono appieno la temperie. Sempre nel 1961, sul lato “B” di Ballata del Miché, si trova la Ballata dell’eroe. Tra il 1960 e il 1961 le superpotenze USA e URSS guidate da Eisenhower e Chruščëv vivono una radicale rottura delle relazione diplomatiche che manda all’aria tutti i propositi e gli accordi sul disarmo. Tutto ciò avrebbe portato alla crisi di Berlino e all’edificazione di quel Muro che avrebbe diviso in blocchi non solo la Germania ma l’Europa e il mondo intero. De André s’innesta nelle dinamiche della grande storia con un testo semplice e una piccola vicenda ma dal forte impatto pacifista: un uomo parte per la guerra, per dovere si spinge troppo lontano e come tanti perde la propria vita. La patria non potrà che glorificarlo «ma lei che lo amava aspettava il ritorno / d’un soldato vivo, d’un eroe morto che ne farà».

Il tema della guerra sarebbe stato ulteriormente sviluppato da De André fino alla pubblicazione nel 1964 di La guerra di Piero. In questo caso è la “memoria affiorante” nei racconti dello zio Francesco, prigioniero dei nazisti in Albania e internato in un campo di concentramento a Mannheim, a ispirare una delle ballate antimilitariste più riuscite e, secondo alcuni, il punto più alto della poesia di De André. Il significato di quei mille papaveri rossi che vegliano i tanti “sepolti” nei campi di grano di tutto il mondo è svelato dallo stesso Faber: «Non è facendo canzoni contro i conflitti bellici che si eviteranno le guerre. Tuttavia, esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza […] Dunque possono essere un buon deterrente. È questa la loro importanza».

 

Papaveri rossi nella campagna inglese

Papaveri rossi nella campagna inglese

Foto: Topham/Cordon Press

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Miti infranti

Il testo del brano Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, scritto insieme a Paolo Villaggio e pubblicato nel 1963, costò nel 1965 alla casa discografica Karim una denuncia per offese alla morale, caduta poi nel 1968. Nell’ottobre del 732 un esercito agli ordini del governatore di al-Andalus si trovò faccia a faccia ai franchi di Carlo Martello. Le forze cristiane, con meno uomini e senza cavalleria pesante, apparivano sfavorite, ma sfruttando la scelta del terreno della contesa, il fattore tempo e l’inganno il franco ebbe la meglio.

La battaglia di Poitiers è stata considerata un episodio decisivo che frenò l’espansione dell’islam in Europa per secoli, fino all’arrivo degli ottomani. De André e Villaggio puntarono sull’importanza rivestita dall’evento storico e dal personaggio per confezionare un brano volutamente canzonatorio. Di ritorno dalla battaglia il re cristiano avverte e cede al richiamo della "carne" dinanzi a una pulzella che poi si rivela essere una prostituta che reclama la propria parcella. E secondo De André la presunta oscenità sta proprio in questo: «Con questa canzone ho voluto demitizzare quel certo alone che siamo abituati a porre intorno ai personaggi storici. Tendiamo a divinizzarli, dimenticando che furono uomini come noi, con voglie e difetti umani».

Carlo Martello nella battaglia di Poitiers. Olio su tela di Charles de Steuben. 1837, reggia di Versailles

Carlo Martello nella battaglia di Poitiers. Olio su tela di Charles de Steuben. 1837, reggia di Versailles

Foto: Pubblico dominio

Piccole storie ignobili

Nel ventre molle dell’amata Zêna (Genova) e nei suoi «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi», tanto per riprendere l’incipit di La città vecchia (1965), De André accoglie simbolicamente quella progenie maledetta che entra nella storia non per meriti personali, ma perché nelle epoche e nelle forme più disparate divenne oggetto dei discorsi e delle strategie punitive del potere.  Quella racchiusa nel verso «dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior» è la parte di umanità antropologicamente più rilevante per l’artista: diseredati, afflitti, poveri, ladri e prostitute.

È storia oscura di ribelli impiccati come Geordie (1966), protagonista di una ballata nata in Scozia nel XVI secolo, reo di aver rubato «sei cervi nel parco del re vendendoli per denaro». Sono le umane miserie racchiuse in Delitto di paese, in cui il cantautore tiene a precisare «che non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male». Nei carruggi (stretti vicoli) della sua città attorno a Via del Campo (1967) o nel paesino-sobborgo di Sant’Ilario o San Vicario, dov’è ambientata Bocca di rosa (1967), De André mette in scena l’atavica lotta che vede contrapposti da una parte il “diverso” dall’altra il potere e la rappresentazione plastica del perbenismo e bigottismo della società italiana degli anni ’60 e ’70.

Grandi regioni sfruttate

A partire dall’esperienza degli storici francesi della nouvelle histoire e della rivista Annales (1929) e in Italia a cominciare dagli anni ’70 con la microstoria, la ricerca e il racconto dei fatti del passato stavano assumendo nuove e interessanti rotte. Non ci s’interessava più soltanto ala narrazione delle grandi dinamiche, delle battaglie campali, degli arazzi e delle ciprie rinascimentali o delle relazioni diplomatiche ma si cominciò a guardare la storia a livello della strada, del marciapiede, delle dinamiche di paese, del vicinato, tutto in un’ottica “micro”. De André, forse inconsapevolmente, coi propri testi aderì alla virata storiografica proposta dal filosofo francese Michel De Certau nella Scrittura della storia (1975): «In una società portata alla generalizzazione, dotata di possenti mezzi centralizzatori, lo storico si spinge verso i gradini delle grandi regioni sfruttate. Fa uno scarto verso la stregoneria, la follia, la festa, la letteratura popolare, il mondo dimenticato del contadino, l’Aquitania, ecc. zone queste silenziose».

Per aver colmato questi “silenzi” in molti furono grati all’artista. Il saggista Walter Pistarini riferisce che nelle settimane successive alla morte del cantautore, avvenuta l’11 gennaio del 1999, la cofondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute, Carla Corso scrisse in una lettera aperta: «Forse non lo sapevi, Fabrizio, che cos’avevi fatto per me, per noi. In Bocca di Rosa, in Via del Campo mi sono rispecchiata. Ero una prostituta della strada e ti ascoltavo, e da dentro sentivo montare la mia dignità. Poi grazie alla dignità sono venuti l’orgoglio e la ribellione».

Per saperne di più:

Fabrizio De André.Il libro del mondo. Le storie dietro le canzoni. Walter Pistarini. Giunti, Firenze, 2018.

Fabrizio De André. La storia dietro ogni canzone. Guido Michelone. Edizioni Theoria, Sant’Arcangelo di Romagna, 2018.

La scrittura della storia. Michel De Certeau. A cura di Silvano Falcioni. Jaca Book, Milano, 2006.

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