Lun. Apr 29th, 2024

di Roberto Saviano

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Quante autobombe devono scoppiare per parlare del potere criminale al Sud? Basta una, forse. Quante rapine? Beh, dev’esserci molto sangue o passeranno inosservate. Quanti omicidi? Se sono di mafia non avranno alcun peso, rientrano nell’ordinario. Forse un omicidio passionale supererà i perimetri della cronaca locale. Due omicidi importanti all’anno servono per attirare l’attenzione nazionale sulla lotta alle mafie, diceva provocatorio Giovanni Falcone. Il Sud rimane stritolato da una narrazione che lo vorrebbe dipinto solo nel suo aspetto olistico e turistico, e da una naturale rassegnazione a non poter far più nulla di fronte a inefficienza e corruzione. Il dibattito politico dell’ultima tornata elettorale ha ignorato completamente il tema mafioso, relegandolo a commenti generici e dettagli di superficie. Le forze politiche in campo nulla sanno e nulla vogliono sapere di questi meccanismi. Se ne occupano con la superficialità di osservatori distratti, con la convinzione granitica che in fondo i veri problemi risiedano altrove.

E ora arriva l’autobomba di Vibo Valentia. Vibo è uno dei territori su cui insiste una delle organizzazioni mafiose più potenti d’Occidente, la ‘ndrina dei Mancuso. La forza è tutta nel narcotraffico e nella capacità di riciclaggio. I Mancuso compravano la coca direttamente dai colombiani di El Mono Mancuso, capo dei paramilitari, di origini italiane ma non loro parente. L’inchiesta Decollo, nel 2004, dimostrò che nelle campagne tra Vibo e Reggio operavano società di import-export che trasportavano la cocaina fornita dai narcos colombiani su navi e aerei. La capacità organizzativa dei Mancuso non ha eguali. La coca veniva inserita in tubi di plastica (sigillati alle estremità e intrisi di una sostanza maleodorante per confondere i cani), nascosti in fori dentro a giganteschi tubi di marmo da 20 tonnellate. Spedivano poi questi cubi colmi di coca in mezzo mondo. La rete dei Mancuso si estende dall’Australia al Canada, dalla Brianza all’Emilia Romagna.

Di questo attentato si sa ancora pochissimo. Le prime notizie parlano di un conflitto tra Francesco Vinci — il padre 70enne di Matteo, morto nell’attentato — e Sara Mancuso, sorella di uno dei boss della ‘ndrina Mancuso. Oggetto della contesa alcuni terreni a Cervolaro: i Mancuso li pretendono, dichiarano in paese che sono sempre stati loro. I Vinci non cedono, non al prezzo proposto. Anni fa tra Francesco Vinci e Sara Mancuso era già esplosa una lite sfociata in coltellate e aggressioni.

Uccidere in maniera così eclatante non sarebbe, per i Mancuso, come aver messo la firma? Potrebbero, come già si almanacca a Vibo, essere le nuove ‘ndrine del Vibonese (cui il clan ha praticamente delegato il controllo del territorio), che volevano fare un favore ai satrapi Mancuso offrendo la testa dei Vinci? I Mancuso, ormai tutti tesi al traffico internazionale di coca e al riciclaggio in Lombardia, ucciderebbero per una lite su un terreno brullo di Cervolaro?

Le dispute sulla terra non sono mai da sottovalutare. In una società dove tutto è simbolo, confini, terra, ulivi e animali rientrano in una semantica cruciale su cui si decidono la vita, il rispetto, la morte. Nel 2010 sempre nel Vibonese, a Filandari, ci fu una rissa tra vicini sfociata in strage. Ercole Vangeli e alcuni suoi parenti avevano problemi con i Fontana, i vicini che non rispettavano i confini della loro terra: gli animali sconfinavano, mangiavano gli ortaggi e rovinavano la coltivazione.

Gli ulivi venivano tagliati senza permesso compromettendo la fioritura. E di questa mancanza di rispetto i Fontana si vantavano in paese, dicendo a tutti che potevano fare ciò che volevano a scapito dei vicini. In piazza non ci si salutava e, anzi, era capitato che si arrivasse alle mani. Questo a Filandari era bastato per sancire una condanna a morte. Vangeli decise di vendicarsi. Aspettò i vicini alla masseria e, quando li vide entrare nel furgone, si piazzò davanti al cofano e cominciò a sparare sul capofamiglia Domenico Fontana e sui suoi figli, Pietro di 36 anni e Giovanni di 19, uccidendoli. Altri due figli, Pasquale ed Emilio, iniziarono a correre e si nascosero nel capannone, ma i Vangeli li raggiunsero per finirli. Vennero trovati più di trenta proiettili.

In una società di beni virtuali, di distanza dalle cose, le mafie sanciscono il proprio potere sulla robba. E’ proprio questa concretezza a rendere le loro economie cosi solide. La tradizione mafiosa italiana non rende mai la propria ricchezza immateriale, i clan possono avere capitali immensi ma non rinunciano alla terra nel loro paese, alle case nei loro borghi, agli uliveti, alle bestie, non valgono nulla nell’impero milionario ma valgono tutto nella semantica del luogo da cui ha origine il loro potere.

Qualunque sia l’origine di questa autobomba, quel che sta accadendo è semplice: le organizzazioni criminali sono scomparse dal dibattito pubblico e quindi possono agire come forza economica naturale del territorio. Anzi, sono la forza economica del Paese. La ‘ndrangheta guadagna dalla droga 24 miliardi all’anno, un giro d’affari superiore a quello di McDonald’s per intenderci. Vale la pena ricordare che, parlando di mafie, parliamo del polmone economico del Paese. Mai come in questi anni le organizzazioni criminali godono in Italia di una sorta di indiretta simpatia. Provo a spiegarmi: le mafie trafficando, estorcendo, cavando danaro da ogni cosa in fondo fanno il loro lavoro. Non dicono di essere altro.

I veri nemici nel sentire comune sono immigrazione, terrorismo islamico, poteri forti, politici, ricchi: bersagli immateriali che rendono le mafie quasi organizzazioni antisistema, quasi dei furbi che fottono il sistema legittimati da un mondo dove nessuno è pulito. La cultura delle organizzazioni mafiose è coerente col clima che si respira nel Paese e su questo basano la loro forza  sul sospetto verso tutto. Dietro a ogni competenza c’è un imbroglio, dietro a ogni posto di lavoro ai vertici c’e’ uno scambio di favori, tutto è comprabile. E allora è giusto far vincere il più furbo e dare addosso a chiunque si definisca diverso.

La storia evocata da Falcone su Frank Coppola è ancora efficace. Il vecchio boss di Partinico divenne uno dei capi di Cosa nostra a Detroit. Durante una rapina in banca negli Anni ‘30 aveva forzato la cassaforte con un grimaldello, ma la mano gli era rimasta incastrata tra lo sportello della cassaforte e la base. Sentendo le sirene della polizia, Coppola con un coltello si tagliò due dita per non essere arrestato. Ci riuscì, portandosi per sempre il nome di Frank “tre dita”. Un magistrato gli chiese: «Signor Coppola, cosa è la mafia?». Il vecchio ci pensò, e poi ribatté: «Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia».

Ecco: la mafia vuole silenzio e incompetenza. Matteo Salvini è stato eletto senatore

in Calabria. Nella sua campagna elettorale e nella sua carriera politica mai è emersa competenza sui meccanismi mafiosi né sul Sud e sulla Calabria. Il regalo più prezioso alle mafie non è fare affari insieme ma non conoscerle. Ne riparleremo alla prossima autobomba.

da repubblica.it

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