“Il Penitente”, uno sguardo critico sulla società e il suo ambiguo senso di moralità

“Il Penitente”, uno sguardo critico sulla società e il suo ambiguo senso di moralità

Emanuela Giorgianni

“Il Penitente”, uno sguardo critico sulla società e il suo ambiguo senso di moralità

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sabato 23 Febbraio 2019 - 04:09

In scena al teatro Vittorio Emanuele II, da venerdì 22 fino a domenica 24, Il Penitente, lo spettacolo con Luca Barbareschi e Lunetta Savino.

“Tu ci hai uccisi tutti… un uomo buono, così buono”. Queste le ultime parole di un dramma che ha lasciato attoniti, dubbiosi ma profondamente coinvolti tutti gli spettatori i quali, venerdì sera, hanno assistito, al teatro Vittorio Emanuele, a “Il Penitente”.

Lo spettacolo nasce dall’ultimo testo di David Mamet, drammaturgo statunitense, vincitore del Premio Pulitzer per Glengarry Glen Ross, tradotto da Luca Barbareschi, regista e attore protagonista, sul palco con Lunetta Savino, Massimo Reale e Duccio Camerini. Andrà in scena venerdì 22 febbraio e sabato 23, alle 21,00 e domenica 24, alle 17,30. Sabato, alle 18,00, sarà, invece, possibile incontrare gli interpreti, sempre presso il nostro teatro.

Uno spettacolo unico, invadente, incisivo. Niente sipario, niente scenografie, solo due sedie sul palco e in alto, appesi al soffitto, due parallelepipedi che proiettano, a ripetizione, immagini di celebri eventi di cronaca, personaggi e momenti osannati o denigrati dalla stampa. Tutto inizia a luci ancora accese, mentre il pubblico si sistema in sala; un uomo, con la kippah in testa, entra e si siede di spalle, alternando la lettura di un giornale all’appuntare qualcosa su un taccuino.

È Charles (Barbareschi), un noto psichiatra, e questa è la storia dell’aberrazione della sua vita.

Il dramma si compone di otto scene diverse, costruite unicamente sulla potenza dei dialoghi del protagonista con la moglie Kath (Lunetta Savino), con l’avvocato Richard (Massimo Reale) e con la pubblica accusa (Duccio Camerini), e sul vigore della loro interpretazione. Quattro soli attori, ma in grado di smuovere l’intero teatro.

Un paziente psichiatrico di Charles ha compiuto una strage, però per i giornalisti, “nuovi sacerdoti della comunicazione”, bisognosi continuamente di elementi pronti a far notizia, questa è storia vecchia, cercano, adesso, un nuovo carnefice e lo trovano nello psichiatra. Il paziente omicida è omosessuale e la stampa decide, quindi, di rendere Charles un omofobo, per questo contrario a testimoniare in suo favore. Charles avrebbe dichiarato di considerare l’omosessualità “un’aberrazione”, ma è tutto travisato, la parola usata da lui è invece “adattamento”.

La stampa ha il potere di rendere una menzogna verità, iniziando, così, la sua tragedia. La crisi dello psichiatra si riversa su ogni piano della sua vita, da quello lavorativo a quello personale, verrà radiato dall’albo e si allontanerà sempre più dalla moglie, incapace di comprendere le ragioni per le quali il marito accetti la sua rovina.

L’avvocato Richard gli consiglia, ripetutamente, di ricevere le scuse della stampa, riconoscendo che sia stata una semplice svista, un errore, non di certo fatto in malafede o per diffamare lo psichiatra e di risolvere il tutto testimoniando per la difesa dell’imputato. Ma Charles non vi riesce, ad impedirlo è la sua integrità morale, il suo obbligo professionale alla riservatezza, non può testimoniare perché non può diffondere il contenuto dei taccuini, sintesi delle sue sedute con il paziente. In una società che non accetta più alcun tipo di moralità, un uomo integerrimo si trova ad essere tagliato fuori, penalizzato, umiliato. Nel mezzo di tale crisi esistenziale, lo psichiatra trova rifugio solo nella fede, nella religione ebraica e nei suoi precetti.

Anche questo attaccamento religioso verrà usato, però, contro di lui, nell’aspra arringa con la pubblica accusa, alcuni brani della Torah manifesterebbero, infatti, un palese rifiuto per l’omosessualità. Lo psichiatra parla di libera interpretazione dei testi, di messaggi simbolici, ma i suoi discorsi colti, complessi, filosofici non vengono compresi e risultano, anzi, controproducenti, in un mondo dove le vittime posso essere rese carnefici con una sola parola, dove la legge non è altro che una finzione legale, ed importa, esclusivamente, rispondere sì o no alle domande, senza alcuna argomentazione, una società dove “si laureeranno tutti al totocalcio”. Charles è stremato ma la sua moralità gli impedisce di fare il voler del giudice e dell’accusa, consegnando loro i famosi taccuini delle sedute; decide allora di affidarli al suo avvocato, fiducioso che lui, condividendo la sua stessa idea di rispetto e segreto professionale, non li aprirà neanche.

Ogni scena termina con il buio, una musica angosciante, una nuova immagine sugli schermi e il cambio di interlocutore. Ma la scena finale è diversa e diverso sarà anche il suo taglio ed il suo esito.

Compare Kath, agitata e irriconoscibile. Nulla è precisato, ma capiamo abbia compiuto qualcosa di grave e si trovi adesso in un centro di cura, probabilmente un ospedale psichiatrico. Charles si assume tutte le colpe del crollo nervoso della moglie, così forte, intelligente, ma abbandonata da lui in questa crisi; la moglie è arrabbiata, se la prende col marito, con le sue scelte che l’hanno rovinata, con la sua religione che l’ha isolata, ma confessa che il motivo reale del suo dolore sia un altro. Kath ha avuto una storia con Richard, l’avvocato, l’unico capace di rassicurarla e starle accanto in quel difficile momento. Charles la perdona seduta stante, riconoscendosene la responsabilità, ma non finisce qui. I due si amavano, continua la moglie, e volevo scappare insieme, ma Richard si tira indietro dopo aver letto il taccuino dell’amico.

Il taccuino riporta una nuova verità: l’omicida consegna a Charles la propria pistola durante l’ultima seduta, ma lo psichiatra, pur essendo consapevole dell’instabilità mentale del paziente e della sua volontà di compiere una strage, gliela restituisce, ponendo fine all’incontro.

Questa semplice azione, questo colpo di scena finale, capovolge tutto ciò che lo spettatore ha creduto dall’inizio del dramma. Charles era il protagonista buono, soppiantato dall’idiozia totale del politicamente corretto, dalla ragione che diventa mera convinzione, dalla società corrotta, ma lo è ancora?

Se abbiamo creduto fosse la stampa a rendere la vittima un carnefice, adesso la domanda su chi sia realmente vittima e chi carnefice si pone sul serio. Resta ancora intatto il messaggio dell’opera o cambia del tutto? Charles è un uomo che per la troppa moralità si è rovinato la vita, o un opportunista capace di spacciare per integrità la difesa del suo personale tornaconto? O ha agito a fin di bene, forse riconsegna la pistola al suo paziente perché solo lasciando lui la possibilità di scegliere lo si può rendere libero di fare la cosa giusta? Ma perché Charles consegna a Richard il taccuino? Vuole abbandonare un peso o crede davvero l’avvocato non lo leggerà?

L’uomo buono è diventato una figura ironica, a che serve agire bene in un mondo che ragiona al contrario? Cos’è davvero il bene e cosa è il male? Chi siamo noi per dirlo o per testimoniare esistano davvero, forse è tutto semplicemente un grande punto di vista, una corretta o erronea interpretazione.

Sono tanti i quesiti che “Il Penitente” apre, presupposto senz’altro fondamentale di ogni grande opera d’arte, e tali quesiti restano insoluti ma, d’altronde, come afferma lo psichiatra: “ad una domanda intelligente si risponde con un’altra domanda intelligente, la risposta ne semplificherebbe il problema, ne ridurebbe la complessità”.

Gli spettatori ritorneranno a casa pieni di domande, da porre ad amici e parenti, rifletteranno sulle parole, sui singoli pensieri, sulla basilarità e il forte impatto delle scene, sull’incisività dell’interpretazione, consapevoli di essere stati non solo spettatori passivi, ma parte attiva di un grande capolavoro.

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