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domenica, 28 Aprile 2024

Un dato certo: nel 2018 gli immigrati hanno lavorato più degli italiani. Una forza lavoro che cresce.

02.12.2018 – 18.00 – È un dato di chiusura anno che, in Friuli Venezia Giulia, non sorprende più di tanto. Emerge dai dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ed era stato preannunciato e dettagliatamente esposto, a livello europeo, nell’indagine Ocse: “Settling In 2018: Indicators of Immigrant Integration“, presentato a dicembre a Marrakech. Qual è, nel dettaglio, il dato che salta di più agli occhi? Il numero di immigrati in Italia che lavora è pari al 60 per cento. Si tratta di un dato leggermente inferiore alla media Ocse, che è al sessantotto per cento, ma è superiore al numero degli italiani occupati, che è del 58 per cento. Nel maggio del 2018 in Italia era stato toccato il record storico di occupati dal 1977, con 23 milioni e 200 mila unità: l’aveva rilevato l’Istat, mostrando un buon risultato nell’impiego femminile – con un 49,4 per cento – ma purtroppo una crescita della disoccupazione giovanile al 33,1 per cento.

Il divario fra l’occupazione degli immigrati e quella degli italiani non è, in valore assoluto, grande, ma aumenta nel momento in cui ci si concentra sui lavori che richiedono meno qualifiche, raggiungendo quasi il 15 per cento di differenza. Nei settori in cui il livello di preparazione e d’istruzione richiesto è inferiore – come l’operaio non specializzato, il manovale, il conducente, l’assistenza agli anziani e ai malati e le pulizie: lavori meno ‘prestigiosi’, di solito più faticosi per quanto per nulla meno dignitosi – gli italiani, stando ai numeri, risultano spesso assenti. Il settore agricolo non è l’ago della bilancia, in quanto, viste le sue particolarità, in queste statistiche non è incluso.

Poca voglia di sporcarsi le mani? Lo si potrebbe dire provocatoriamente, ma naturalmente la spiegazione non è così semplice. La mancanza di volontà nel compiere un ‘passo indietro’ rispetto a professioni privilegiate e al ‘posto sicuro’ che i genitori avevano influisce certamente nei ragazzi; un ascensore sociale fermo, in Italia, significa anche non avere più la certezza che ciò che si farà una volta terminata la scuola sarà qualcosa di migliore rispetto a quello che avevano fatto mamma e papà: per riprendere ad accettare l’idea che non si farà l’architetto, ma si farà l’operaio, ci vuole un po’ e in alcuni casi l’idea che sia possibile rimanere disoccupati o quasi vivendo a casa, con i genitori, e con il reddito di cittadinanza, può sedurre. E questo nonostante sia ormai certo che le professioni che più risentiranno della distruzione di posti di lavoro dovuti all’informatizzazione e all’automazione – all’Intelligenza Artificiale, quindi – saranno proprio quelle di papà e mamma: i bancari, gli impiegati dei servizi, gli addetti al settore finanziario, i tecnici di medio livello.

In questo scenario, però, non è ininfluente la mancanza di capacità o volontà, dovuta a molti fattori e presente già da decenni, dell’impresa stessa di poter assumere un lavoratore italiano con una retribuzione adeguata a un tenore di vita medio. Mentre svolgono questo tipo di mansioni lasciate un po’ da parte da chi in Italia è nato, infatti, gli immigrati tendono ad accettare salari e stipendi inferiori alla media; non necessariamente al di fuori da un contratto di lavoro, ma sfruttandone le pieghe, e veleggiando con più flessibilità degli altri attraverso la variegata situazione di atipicità e precarietà del mercato del lavoro italiano. Il loro reddito risultante è inferiore, e va così a creare una situazione di povertà relativa e di stratificazione della popolazione; nel frattempo, però, si vive, e non è un risultato da poco.

Questi lavoratori ‘figli di un mercato minore’, che hanno un titolo di studio superiore solo in un 13 per cento dei casi, diventano così via via, lo si ammetta o meno, una rilevante forza lavoro dell’Italia dei prossimi anni, con tutte le difficoltà che ciò comporta: dall’impoverimento generale di una larga fascia di popolazione, alla perdita di valore delle aziende stesse tese al solo profitto, alla reazione nei confronti del ‘diverso’, dello straniero colpevole di sottrarre lavoro. Il futuro, da qui al 2030, appare destinato a essere contraddistinto da tensioni sociali.

 

Roberto Srelz
Roberto Srelzhttps://trieste.news
Giornalista iscritto all'Ordine del Friuli Venezia Giulia

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