Oltre il muro, c’è una falesia

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Naijwa Zebian, poetessa e autrice libanese, ha scritto: “Those mountains that you were carrying, you were only supposed to climb”. E’ questa frase che mi rimbomba in testa da giorni, per ragioni molto personali, ma anche perché un documentario di soli 10 minuti che ho visto recentemenre ha tradotto in immagini il senso di queste parole. Montagne di cui portiamo il peso, che invece dovremmo solo scalare. Un invito a cambiare prospettiva, a fidarsi dei propri piedi e delle proprie forze, che non sono quelle che usiamo solo per accogliere fardelli che ci sentiamo o teniamo addosso, ma anche quelle per scavalcarli.

Beyond the wall, Oltre il muro, è un piccolo gioiello tra le produzioni documentaristiche che ho avuto la fortuna di vedere al Trento Film Festival, a cura di Ed Douglas e Ray Wood. Racconta storie come quella di Anas Askar, ragazzo dagli occhi scuri e dal sorriso un po’ stanco, che vive a Hizma, villaggio a 7 km dalla città vecchia di Gerusalemme. Da casa sua alla falesia di Anatot, recentemente e illegalmente trasformatasi in insediamento israeliano, c’è una mezz’ora di camminata. Ogni settimana, in compagnia del fratello Urwah, Anas trova rifugio in questo angolo di west bank, e quello che fanno è scalare. Semplicemente scalare, sì. Lo fanno come molti altri loro coetanei nel mondo, perché è un gesto atletico, perché ti mette fortemente in contatto con una natura selvaggia e ruvida, perché libera la mente mentre la ancora al rinvio, all’appoggio, all’appiglio. Lo fanno però anche con un motivo in più, giovane, ambizioso, sensato: Wadi Climbing. 

 Tim Bruns, americano e cofondatore del progetto, ne racconta gli esordi: una falesia attrezzata vicino a Ramallah grazie alla collaborazione di alcuni climber, stranieri e residenti. Lo scopo principale era uno soltanto, all’inizio: avviare all’arrampicata chi ne avesse desiderio. Dagli esordi a oggi, però, il progetto ha coinvolto oltre 1800 persone, che si sono incontrate in questa palestra all’aria aperta, diventata in poco tempo molto più di un ritrovo per sportivi: la falesia si è fatta in breve luogo convivenza, costruzione di amicizie come cordate, sfide alla verticalità, certo, ma anche ai luoghi comuni. Circa il 70% sono palestinesi, altri sono stranieri che vivono in zona e sul totale oltre il 45% sono donne provenienti da Gerusalemme, Nablus, Hebron e Ramallah, ciascuna con le loro storie. “Ragionandoci su, non è così strano che ci siano così tante donne”, riflette Tim: “la Palestina non è l’Arabia Saudita” e sì, ci sono persone che non sono d’accordo sul fatto che si vada tutti ad arrampicare insieme, ma dall’altro lato ci sono anche persone che apprezzano in maniera autentica questa possibilità come occasione di riscatto. Ci sono donne che vengono ad arrampicare indossando lo hijab, a volte anche cristiane: questo accade grazie anche alla collaborazione di due ragazze, una belga e una tedesca, che vivono qui e che hanno partecipato alla buona riuscita di questi appuntamenti, che sono anche nuove opportunità di esprimersi.

Molti dei partecipanti, prima di aderire a questo progetto, le falesie vicino casa le avevano viste solo su National GeographicA volte succede: abiti a pochi km da un posto di cui non conosci l’esistenza… perché non hai mai pensato di spingerti oltre, o perché non hai potuto, o perché farlo, a volte, è così difficile e stancante che alla fine rinunci. Come ogni persona che abbia mai arrampicato sa, mentre si scala una parete si vive più che in altre situazioni il momento presente: ci si focalizza sui movimenti, sul luogo e sul tempo del presente, apprezzando la bellezza del paesaggio ma anche e soprattutto la fiducia nel compagno di corda e di sicura.E Anas lo conferma: “Sei lontano dalla città, tutto è tranquillo e incontri i tuoi amici, e a volte è ciò di cui hai bisogno per sfuggire allo stress”. Da queste parti lo stress non è solo una vita dai ritmi frenetici e incalzanti. Anas racconta che quando prende la macchina per raggiungere falesie come Yabrud o Ein Yabrud deve attraversare lungo la strada di accesso due checkpoint, dove viene frequentemene fermato e il suo bagaglio perquisito accuratamente: anche arrampicare, qui in Palestina, non è proprio come in altre parti del mondo.A volte arrivi in falesia con un umore che non è quello giusto per scalare…” Concentrazione e pericolo possono diventare inversamente proporzionali. Le falesie sono vicine al crossing point di Qalandiya, per raggiungere Gerusalemme Est, e sono luoghi meglio conosciuti come luoghi cruciali per le tensioni israelo-palestinesi.

In questo caso però è stata l’ospitalità palestinese a confermare il successo di Wadi Climbing, che ha riscosso interesse e curiosità e che ha permesso anche l’apertura nel 2016 di una palestra di arrampicata a Ramallah, nata anche grazie al contributo di un crowd fundingnegli States: perché non si tratta solo di un progetto con risvolti sociali. Quelle dove sono state recuperate le falesie sono aree che sono diventate molto importanti e ricche di significato per le persone le frequentano, sature di ricadute anche per la valorizzazione del territorio.

E il sogno di chi spera in un mondo più attento ai diritti umani, in qualunque forma vengano difesi, lo esprimono con estrema semplicità e onestà le parole piene di speranza di Anas: “in futuro forse potrò visitare altri Paesi per arrampicare… arrampicare mi fa sentire la sensazione di una nuova libertà”.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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