La Storia, per gli antichi, era maestra di vita. Incarnava per l'umanità intera quello che per un singolo individuo viene rappresentato dalle esperienze che ha vissuto.

Dall'insieme delle sue esperienze quotidiane, anche da quelle apparentemente più insignificanti, l'uomo impara come muoversi nella vita, cosa fare e cosa non fare, quali scelte compiere e quali conseguenze tali scelte possono avere. Poi si può sempre sbagliare, ma nessun essere umano sceglierebbe coscientemente di fare a meno della propria esperienza e della propria storia personale. Eppure, l'umanità intera, a volte, sembra dimenticarsi delle esperienze passate, quasi non la riguardassero, quasi che ciò che è successo alle generazioni che ci hanno preceduto, gli errori e le grandezze degli uomini che hanno calpestato questa nostra Terra non appartenessero anche a noi, uomini di questo ventunesimo secolo appena nato, non fossero il nostro comune bagaglio di esperienza da cui imparare. Nel suo ultimo libro "Quando inizia la nostra Storia" (Mondadori, 2018, pp. 456, anche e-book) Federico Rampini ci invita proprio a riscoprire la storia come guida per interpretare e comprendere meglio il presente. Ci propone undici date chiave che ci consentono di far luce sui sorprendenti legami tra eventi epocali del passato e quello che viviamo oggi. Ci invita a riavvolgere il nastro del tempo per mostrarci, per esempio, come il 1450 con l'invenzione della stampa abbia aperto la strada alla rivoluzione delle comunicazioni di cui tutti siamo testimoni oppure come il 1869, con l'apertura del Canale di Suez, sia il momento iniziale del globalismo:

"La storia che stiamo vivendo, intesa come storia globale, ha inizi multipli" – ci racconta proprio Federico Rampini –. "Io ho individuato undici date che in qualche modo sono state la genesi del mondo contemporaneo. L'ho fatto ma non da storico che vuole scrivere un saggio accademico. Amo la storia, la leggo, ma il mio libro nasce prima di tutto dai miei viaggi, dalle esplorazioni del mondo che ci circonda. Dai miei tentativi di provare a capire l'America di Trump, il Medio Oriente, l'Iran, la Silicon Valley partendo dalle domande che nascevano dentro di me visitando quei luoghi".

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Nel libro si sottolinea come la storia debba tornare a essere una guida. Ma è veramente maestra di vita come si dice? E noi siamo alunni capaci di recepire?

"La citazione completa di Cicerone dice che 'la storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell'antichità'. Insomma, la storia è una cosa complessa e le sue lezioni non sono semplici da decifrare. Bisogna prima di tutto sfuggire alla visione semplicistica che ci porta a pensare che la vicenda storica si ripeta sempre uguale. Nella storia sono interessanti le analogie, le similitudini, quegli elementi che rendono meno oscuro il presente. Se sappiamo che determinate dinamiche si sono già presentate e sono state affrontate, allora l'oggi diventa meno angosciante. Insomma, la storia ci aiuta a non essere troppo schiacciati sull'attualità".

Molta pagine sono dedicate agli Stati Uniti, un paese descritto come al tramonto ma che continua a essere il centro del mondo. Ma che tipo di America è quella di oggi?

"Gli Stati Uniti sono ancora la nazione leader. Oggi però esistono due Americhe che non si mescolano tra di loro all'interno del Paese. C'è l'America di mezzo, quella che ha di nuovo votato Trump nelle elezioni di medio termine di inizio novembre. Se mi sposto nella Silicon Valley trovo un mondo diverso, con valori differenti. Nel libro c'è un capitolo in cui metto assieme queste due anime dell'America, raccontando il lungo Sessantotto americano, un'epoca che comincia in realtà nel 1963 e dura un quinquennio. In questo Sessantotto americano ci sono le lotte dei neri per i diritti, l'ambientalismo, la cultura hippy ma c'è anche l'America in cui gli operai fanno una scelta di campo sul fronte conservatore. I figli dei proletari e i figli della borghesia erano già allora su fronti opposti e quella spaccatura è continuata fino ad oggi. Non certo a caso il 1968 negli Stati Uniti è stato l'anno dell'elezione di Nixon e degli assassini di Martin Luther King e di Bob Kennedy".

Ma Trump, come sostengono alcuni, è un'evoluzione del modello nato in Italia con Berlusconi?

"In questa idea un fondo di verità c'è perché l’America guarda spesso all'Italia. Gli americani amano D'Annunzio, negli anni Trenta del Novecento hanno avuto una infatuazione per Mussolini e il fascismo. Nel libro vado ancora più indietro nella storia, propongo una tesi che mi ha affascinato leggendo altri libri di storia. Parto da frate Girolamo Savonarola, predicatore finito sul rogo a Firenze alla fine del Quattrocento e vedo in lui l'archetipo di tanti populismi attuali. Savonarola viveva in un'epoca straordinaria dal punto di vista artistico e culturale come è stato il Rinascimento italiano. Un'epoca dominata però da una classe politica criminale fatta di papi e principi che assomigliavano a moderni narcos. In quel periodo si era appena scoperto il Nuovo Mondo e si ebbe un primo inizio di globalizzazione con mercanti e banchieri che si arricchivano grazie ai commerci mondiali e tutti gli altri più poveri. In quell'epoca il populismo ebbe il suo primo laboratorio".

Venendo all'Europa, il Vecchio Continente sembra sempre più impaurito e chiuso su sé stesso. Anche queste dinamiche vengono da lontano?

"Ne parlo nel capitolo dedicato all'immigrazione. Per trovare una data chiave da cui partire sono risalito agli anni 1840-45, quando l'Irlanda fu colpita da una terribile carestia dovuta alla perdita dei raccolti di patate a causa di una malattia delle piante. La patata era la base dell'alimentazione nell'isola e nel giro di pochi anni su una popolazione di quattro milioni di persone, un milione morirono, un altro milione emigrò negli Stati Uniti e in Inghilterra. Di quello che accadeva in Irlanda si occupò Karl Marx che viveva a Londra e solidarizzò con gli irlandesi ma, soprattutto, analizzò con implacabile lucidità gli effetti economici dell'arrivo di tanti immigrati in terra inglese. Gli imprenditori li accolsero a braccia aperte perché la loro venuta consentiva di abbassare i salari e, nello stesso tempo, indeboliva il movimento operaio inglese. Gli scritti di Marx dedicati alla questione irlandese non sono stati più ripubblicati perché probabilmente considerati troppo scabrosi per la sinistra amante del politically correct. Però contengono una lezione validissima anche oggi, una lezione che proprio a sinistra si tende a dimenticare: gli effetti dei grandi flussi migratori sono quelli descritti da Marx e non ha senso continuare a ripetere frasi stereotipate del tipo 'gli immigrati vengono a fare lavori che noi non vogliamo più fare'. A volte è così, a volte non è così. Bisogna rendersi conto di questo se si vuole comprendere lo spostamento a destra della classe operaia a cui stiamo assistendo".

Uno spostamento a destra irreversibile?

"Nella storia tutto è reversibile, però è troppo facile adorare gli immigrati se si vive nei quartieri bene come capita a tanta sinistra radical chic e gli immigrati sono i camerieri oppure i portinai. Più complesso se hai a che fare con ragazzi musulmani che magari hanno comportamenti sessisti verso le tue figlie, se vivi sullo stesso pianerottolo con gli immigrati, magari sono gli spacciatori del quartiere e per vendicarsi di qualche torto del colonialismo europeo danneggiano e incendiano un'auto. La sinistra deve comprendere che lo spostamento delle classi lavoratrici non se l'è inventato Salvini o Trump. È cominciato perché proprio la sinistra non si è più occupata dei ceti operai, ha girato le spalle a quei ceti per occuparsi di altro".
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