" Vuoi sapere se mi candido?". Maurizio Martina sorrideva, mentre mi faceva questa domanda, in un camerino de La7, solo poche ore fa: "Non posso dirtelo. Perché ancora non ho deciso. È la verità".

Infatti manca solo lui, poi tutte le carte saranno sul tavolo in vista della sfida finale. Marco Minniti l'avevo intervistato questa estate, nella sua bellissima casa di capo Spartivento, in Calabria, l'ex dormitorio di un guardiano del faro: "Candidarmi segretario? Ma non ci penso nemmeno, non esiste!".

Ci pensava eccome, ma lui segue la vecchia scuola: non dire gatto se non ce l'hai nel sacco. Nicola Zingaretti - invece - ha rotto gli indugi subito dopo il voto di marzo: "Sarò in campo per le primarie". E nei giorni in cui nessuno lo seguiva mi diceva sorridendo: "Vedrai che tra poco ci sarà la fila!". Su questo - come si è visto - aveva ragione. Il fratello di Luca - ovvero il commissario Montalbano - è stato solo il primo. Ma sia lui che gli altri sono tutti scaltri, tutti pokeristi e la posta in gioco è alta.

Congresso del Partito Democratico, istruzioni per l'uso: anche se non siete iscritti, e persino se non voterete per il nuovo segretario, potreste essere intrigati dalla battaglia, perché stavolta la partita è aperta. Se non altro perché queste primarie (e non era mai accaduto prima) saranno complesse come un sudoku e combattute come una partita di Risiko.

Stavolta, tanto per dire, i candidati saranno probabilmente otto. Stavolta nessuno dei due favoriti - Minniti e Zingaretti - potrà contare su di un margine di sicurezza certo.

E se Martina dovesse candidarsi anche lui, aggiungerà una interiore incognita (perché allontanerebbe il primo arrivato dalla maggioranza assoluta). Per questo motivo, a differenza di Valter Veltroni, di Pierluigi Bersani, di Matteo Renzi che - se ricordate - quando fu il loro turno scesero in campo tutti da "cavalli piazzati" (e infatti vinsero), nessuno dei duellanti di oggi può dire di avere la vittoria in tasca. Dunque le primarie sono contendibili e potrebbero persino combattersi in due round: secondo il regolamento del Pd, infatti, se nessuno dei due candidati supera il 50%, il nuovo leader viene eletto dall'Assemblea Nazionale a fine congresso, e in quel caso ogni zero virgola raccolto conterà per fare numero: ecco il motivo per cui corrono tanti candidati minori, dall'outsider (Matteo Richetti) a quello più a sinistra (Francesco Boccia, seguace di Michele Emiliano), dall'ex sindacalista (Cesare Damiano) alla sorpresa (il giovane Dario Corallo), alla donna (Chiara Gribaudo o Katiuscia Marini, possibili candidate di Matteo Orfini).

Eppure, chiunque vinca, il primo dato sicuro è che il partito cambierà ancora una volta pelle: nell'ultima foto di gruppo prima delle politiche, infatti i primi cinque posti-chiave della rappresentanza istituzionale del Pd erano tutti occupati da uomini che venivano dalla storia della Dc, del Ppi o della Margherita. In questa partita invece i due vincitori più probabili - Minniti e Zingaretti -vengono entrambi dalla storia del Pci. Cresciuti addirittura dalla stessa corrente, dal momento che appartengono a due diverse generazioni di dalemiani. È come se - avvertendo di aver smarrito la propria identità originaria - il corpo del Pd volesse tornare alle antiche certezze, all'usato sicuro. In questo continuo ribaltamento di equilibri - infatti - si avverte il peso della fusione a freddo tra le due anime del Pd, quella post-comunista e quella post-democristiana, mai integrate fino in fondo.

Ovviamente Minniti e Zingaretti sono molto diversi e prefigurano un confronto classico tra un'ala destra e un'ala sinistra: Minniti l'ex ministro dell'interno, l'uomo che lanció l'allarme immigrazione, e Zingaretti che invece ha mosso i suoi primi passi, nel lontano 1987, in una organizzazione di solidarietà con gli immigrati ("Nero e non solo").

Minniti che considera il M5s una iattura e la Lega un avversario politico. Zingaretti che invece è l'unico presidente del Pd che governa con il voto del M5s. E questo nei mesi in cui il più grande studioso di flussi elettorali, Roberto D'Alimonte, ha presentato una ricerca in dieci tabelle per lanciare un allarme: "Il Pd potrebbe sparire". D'Alimonte non è un nemico che gufa, ma un simpatizzante che vuole aiutare la sua famiglia politica. Che tuttavia avverte: "I partiti possono estinguersi, come sta accendendo ai socialisti francesi".

Minniti mi ha detto: "Chi sottovaluta il cosiddetto governo del cambiamento, anche anche quando fa casino sbaglia. Sono come Craxi e De Mita: litigano ogni giorno ma hanno un patto d'acciaio". Zingaretti sostiene: "Noi dobbiamo chiedere scusa per quel che ha fatto il Pd negli ultimi cinque anni, abbandonando i suoi elettori". Minniti ribatte: "Cancellare la nostra esperienza riformista è suicidio". Zingaretti non ha escluso di cambiare nome, Minniti si arrabbia: "Farlo sarebbe un errore drammatico".

A pensarci bene questo batti e ribatti non è un male. Se la sfida è fra leader che hanno idee così diverse, i partiti non diventano più deboli, ma più forti.

Luca Telese
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