Maria Monti, la prima donna

A salire sul palco come cantautrice in un mondo di uomini, a scrivere canzoni politiche, a collaborare con grandissimi artisti, da Bernardo Bertolucci a Giorgio Gaber, uno dei suoi grandi amori. Oggi, quasi novantenne, Maria Monti racconta i ricordi di una vita appassionata
Maria Monti
Foto Leandro Emede.

Questa intervista è pubblicata sul numero 8 di Vanity Fair in edicola fino al 27 febbraio 2024.

La luce del pomeriggio invernale si affievolisce nel corso dell’intervista, nel grande salone con le pareti damascate della Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi di Milano, dove Maria Monti risiede. È buio, ormai, quando dopo un’ora di chiacchiere e ricordi, prima di salutarci, le chiedo di accennarmi una strofa di Non arrossire, una delle grandi poesie della musica italiana, portata al successo nel 1961 assieme a Giorgio Gaber. Ma anche una delle mie canzoni del cuore. Non mi risponde nemmeno, canta subito. Con lo sguardo è come se cercasse le parole lassù, nell’aria. La voce è una sorpresa, ancora pulita e piena, nonostante le incrinature dell’età.

Ma torniamo all’inizio, al sole che illumina i suoi occhi verdi, fragili e duri per tutto il tempo.

Con Giorgio Gaber a Sanremo, nel 1961.

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Ricorda la prima volta sul palco?
«È un po’ lontana nella memoria, ma ci deve essere stata una prima volta. Era al Santa Tecla, un locale di Milano. Ho cantato nel cesso. L’orchestrina stava di fianco alla toilette, e io che ero timidissima mi sono infilata lì per non farmi vedere. Mi hanno applaudito lo stesso».

È uscita presto dalla toilette, anche perché era bellissima.
«Non esageriamo, adesso. Non ero troppo male».

Vorrebbe tornare, oggi, sul palco?
«Non per il gusto del palco, perché non è affatto un gusto. Ma perché dopotutto era il mio lavoro».

Era solo un lavoro?
«Era un lavoro molto appassionante e passionale, che non ti lasciava tranquilla. Bisognava essere capaci di reggere le nevrosi. E poi io spesso cantavo canzoni con un’impronta politica: c’era anche un po’ da lottare, da stare attenti».

Come li ricorda quegli anni?
«Il bello è che sono passati. Penso di avere scritto delle canzoni che non sono da buttar via. Basta
andare su YouTube e cercare “Maria Monti”».

È stata una cantante, ma anche attrice per tv, cinema e teatro. Qual era la sua vera vocazione?
«Attrice non mi sono mai sentita. Ero una che se Bertolucci mi cercava per un ruolo, io lo facevo».

PA666C 168 Maria MontiAlamy Stock Photo

Lei ha inventato la parola «cantautore».
«Qualcuno dice che è andata così».

È considerata la prima cantautrice italiana, ha collaborato con geni come Gaber e Jannacci, ha scritto canzoni politiche e inciso canti popolari, ma anche sperimentato sonorità alternative. Crede, oggi, di essere ricordata abbastanza, per quanto ha fatto?
«Per la verità, no. Ma mi viene anche da dire: perché bisogna essere ricordati? Un suo collega ha scritto un articolo dal titolo: Maria Monti, la dimenticata».

Si sente dimenticata?
«Anche. Ma non è che sia qua a disperarmi per questo. A me è successo così».

Oggi è felice della sua vita?
«Abbastanza. Lo devo alla meditazione trascendentale».

Me ne parla?
«Ho cominciato nel ’68 e non la mollo. La faccio due volte al giorno, fa molto bene. Che dirle di più?».

Che cosa le ha insegnato?
«A non prendermela per quello che è stato il mio destino, credo. Anche perché chi se ne frega, dopo tutto».

Com’è stato essere l’unica, per lungo tempo, donna cantautrice in un mondo di uomini?
«Era dura, ero dimenticata già allora. La radio mi bocciava i pezzi».

Perché era donna?
«Non credo. Per quello che raccontavo in queste canzoni: pizzicavano dei punti che al sistema davano fastidio».

Con Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci.

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Crede di avere avuto più difficoltà rispetto ai suoi colleghi uomini per arrivare al successo?
«Be’, ai miei amici Jannacci e Gaber credo che nessuno abbia mai detto “Ma cosa vuole quello lì?”. A me sì».

Le donne oggi come le sembrano?
«Stanno meglio di allora, tutte. Il mondo è cambiato, accetta di più le piccole, o medie, sfide delle donne».

Crede di avere contribuito a questo cambiamento, in Italia, grazie alle sue canzoni?
«Di questo non posso vantarmi. Per fortuna la gente cambia. Purtroppo in questo momento stiamo andando verso una destra che non mi piace. Anzi, diciamo che ci siamo già».

Lei è sempre stata di sinistra, era iscritta al Partito Comunista. Mai avuto dubbi sulla sua appartenenza?
«No. Tuttalpiù ho avuto un po’ di “innamoramenti” per tipi come Marco Pannella».

E com’è la sinistra italiana oggi?
«Mi auguro che prenda vita. Che riprenda vita».

Sul set di Giù la testa, di Sergio Leone.

Album / Alamy Stock Photo

Parliamo di Giorgio Gaber, con il quale è stata legata, anche sentimentalmente, per alcuni anni. Era molto innamorata di lui, vero?
«Anche lui di me. Avevo 22 anni e non andavo d’accordo con mia madre. Sarei stata molto contenta se lui, da uomo, mi avesse detto “Vieni via”. Ma non è successo, e io sono stata costretta a mollarlo».

E lui?
«Venticinque anni dopo, ci siamo ritrovati al ristorante, dopo un suo spettacolo. Eravamo in tanti, lui si è alzato in piedi e mi ha chiesto: “Ma perché mi hai mollato?”».

Si è mai pentita?
«No. Sapevo benissimo che sarebbe stata molto dura vivere senza un grande amore come quello che avevo per lui. Mi ha molto confortato lo splendido Mario Dondero, il fotografo, che ho incontrato dopo».

Lei è autrice, anche se non accreditata, del testo di Non arrossire.
«Ero io quella che arrossiva: un bel problema psicofisico. Poi mi sono stufata di questi arrossamenti».

Con Gaber nel ’61 è andata a Sanremo con Benzina e cerini: «Il mio destino è di morire bruciato / La mia ragazza deve averlo proprio giurato / Ha inventato un nuovo gioco / Mi cosparge di benzina e mi dà fuoco». Oggi non si potrebbe più cantare, troppa violenza.
«Ah no? Ancora oggi? Ma allora il mondo non è mica migliorato».

Quando finì la storia con Gaber, in che rapporti siete rimasti?
«Abbiamo lavorato assieme ancora per un po’. L’attrazione era forte, ci siamo lasciati e ripresi, ma non è durata a lungo. Anche se pensavo: “Ecco, è lui l’uomo della mia vita”».

È stato il suo grande amore?
«Be’, ne ho avuti diversi».

Fortunata.
«Sì. Io sono una che prende le cotte. Ci soffro, ci gioisco».

Parla al presente.
«L’ultimo è stato un cubano, un musicista. Ma erano 30 anni fa».

Nel 1960 ha inciso Recital, un disco femminista nel quale raccontava la donna nuova di allora, più consapevole, e indipendente. Se dovesse scrivere oggi una canzone sulle donne, come sarebbe?
«Non è facile metterle insieme tutte, sono molto diverse tra loro».

Cosa pensa delle cantanti di oggi?
«Carmen Consoli è molto brava, ma non mi piace la sua voce».

Gino Paoli di recente ha detto che una volta c’erano Mina e la Vanoni mentre «oggi, emergono le cantanti che mostrano il culo».
«Io credo che semmai siano le gambe a piacere».

C’era più talento in giro una volta?
«C’è anche adesso. Ma oggi ci sono anche le gambe».

Del vostro giro era anche Enzo Jannacci.
«Un bel tipo, pieno di sfaccettature. Noi lo chiamavamo “schizzo”».

Lei aveva un soprannome?
«Ogni tanto qualcuno mi dava della matta. Era facile definirmi così».

Perché?
«Non andavano abbastanza in fondo».

Nel 1964 la sua canzone La marcia della pace venne sequestrata perché considerata un invito all’obiezione di coscienza, antimilitarista e sovversiva. Lei come si spiega le guerre che ancora oggi affliggono il mondo?
«Siamo gente, in fondo, senza speranza. Che cosa dire di Putin? Sarò facilona, ma mi ricorda Hitler».

Ma lei che l’ha cantata, ci crede ancora nella pace,?
«Finché esistono dei Trump…».

In un’intervista di pochi anni fa ha detto: «Ora che sono una signora di una certa età, mi piace progettare il futuro».
«Tra un anno e mezzo ho 90 anni. Non ho un futuro, che io sappia».

Cosa vorrebbe fare ancora?
«Se mi venisse fuori qualche testo interessante… Scriverlo, viverlo…».

Scrive tutti i giorni?
«Mai. Sa, vivo in una stanzuccia mica tanto grande».

Non ha spazio per scrivere? Ma le idee ne ha?
«Può darsi che mi vengano».

Oltre che con Gaber e Jannacci, ha lavorato con Paolo Poli, Carmelo Bene, con Bernardo Bertolucci per Novecento, con Sergio Leone per Giù la testa. Nessuno di loro, oggi, è più con noi. Che effetto le fa?
«Guardi, io sono un’orfana di padre. Avevo sei anni e mezzo, il giorno che è morto, al cimitero, la tata mi chiese se fossi triste. E io risposi di no, perché ero convinta che la sera sarebbe comunque tornato per cena. Ho continuato a crederlo, fino a che a un certo punto, vivendo, ho dovuto rendermene conto. Mio padre non c’era proprio più. Addio papà, per sempre. Queste sono grosse tristezze perduranti. Insomma, ho dovuto fare presto i conti con la morte».

Lei non ha avuto figli.
«No, io sono la Zitella cha cha cha (il titolo di una sua canzone, ndr), lo sapevo già allora, evidentemente. Andrà avanti così, finché dura. Ma non ci soffro per questo».

Le capita mai di pensare alla sua, di morte?
«Sì che ci penso, ma non ne ho mica tanta paura. Capita a tutti prima o poi. Mi guarda in un modo strano: non la pensa così anche lei?».

Io un po’ di paura ce l’ho.
«Ah».
Una pausa.
«Adesso devo lasciarla, però. Qui si cena alle sei e mezza. Credo che una cosa del genere, nemmeno in Svezia…».

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