Moda: gli scivoloni politically incorrect. Tra razzismo e polemiche

Big Uncle lancia una collezione dedicata al colonialismo. E, inevitabilmente, scoppia la polemica. Ma non è la prima volta che la moda fa riferimento alla religione o alla schiavitù: dito puntato contro alcuni capi, o intere collezioni, del recente passato, così provocatori da suscitare scandalo e indignazione. Solo per un eccesso di leggerezza?
Collezioni moda tra razzismo e polemiche  VanityFair.it

Una collezione che «celebra» il colonialismo: è questa la scelta decisamente azzardata del brand (tutto italiano) Big Uncle. La Colonial Deal collection ha catturato l’attenzione in rete, ma non tanto per la scelta dei materiali, dei colori o dei tagli dei capi che la compongono, quanto per la felpa con la scritta rossa Colonialism, indossata da un modello bianco dallo sguardo fiero. La collezione, accusata di **razzismo **e considerata irrispettosa, è diventata oggetto di una petizione affinché venga ritirata dal mercato.

Sebbene la libertà di espressione nelle creazioni dei designer vada sempre rispettata e, anzi, apprezzata, in più occasioni, nel passato, ci siamo trovati di fronte a dei veri e propri epic fail, scivoloni, pericolosi sconfinamenti nel politically incorrect del razzismo e della discriminazione. Forse, spesso, causati semplicemente da un'eccesso di leggerezza nel non saper individuare il confine tra ironico, sarcastico e inopportuno.

Quello del marchio italiano Big Uncle (leggiamo anche un riferimento allo zio Tom nel nome) non è l’unico caso. Basti pensare al recente polverone scatenato della felpa di H&M Coolest monkey in the jungle indossata per il catalogo online da un bambino di colore. La «distrazione» non è sfuggita, diventando un trend su Twitter e causando saccheggi e danni a diversi store in Sudafrica come forma di protesta. Per il brand svedese non è stata l'unica gaffe: un paio di calzini per bambini sono stati ritirati dal mercato per un simbolo molto simile alla scritta araba «Allah».

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Ma sono numerosi i casi simili del recente passato. Polemiche per ASOS, che ha messo in vendita online una T-shirt del brand Wasted Heroes che riportava la scritta Slave (schiavo), indossata da un modello di colore. Chiaro riferimento alla schiavitù anche per uno dei modelli di scarpe della collezione Jeremy Scott x Adidas, dotate di «manette» da allacciare alle caviglie. Bufera su Zara, costretta a correre ai ripari in diverse occasioni. Il marchio catalano ha messo in vendita: una camicia con dei piccoli fulmini stampati che ricordano il simbolo nazista SS; una minigonna denim con la stampa di una rana, simile a «Pepe the frog», simbolo della destra suprematista americana; una felpa a righe orizzontali con stella gialla applicata, troppo simile all'uniforme degli ebrei dei campi di concentramento.

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Dolce&Gabbana alla Milano Fashion Week del settembre 2012 ha presentato in passerella alcuni capi con volti di donne di colore come stampa e degli orecchini che ricordavano la celebre black Mammy della cultura popolare. Polemiche anche per Moncler e la T-shirt dal design considerato razzista. Volto nero e labbra carnose sembravano un chiaro riferimento alla Golliwogg doll o al Blackface, il make-up teatrale diffusosi nel XIX secolo che riproduceva, enfatizzandoli all'estremo, i tratti tipici dei personaggi di colore. Mango, invece, ha creato ben due collezioni Ramadan, scelta fuori luogo per il riferimento religioso.

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Giudicata di dubbio gusto la scelta di Dsquared2, che nel marzo 2015 presentava la collezione «Dsqaw», con tanto di hashtag sui social, ispirata agli indiani d'America. Peccato che il termine «squaw» sia un dispregiativo per le donne pellerossa. TopShop e Urban Outfitters lanciavano sul mercato, per poi ritirarli, rispettivamente una collana con «visi gialli» come pendenti e un copriletto con una stampa del dio indiano Ganesh.

Che si tratti di riferimenti alla schiavitù o alla religione, la portata del fenomeno moda è, oggi, tale da non permettere questo tipo di scelte. Tra like, condivisioni e flash dei fotografi, ogni «svista» non passa inosservata! Anche se vogliamo credere che si tratti, quasi sempre, di leggerezze inconsapevoli, dettate dalla fretta di un fashion che corre sempre più fast. Forse, evidentemente, troppo.