Elton John: il vestito del Re

A settembre Elton John inizierà il tour che in tre anni lo porterà a salutare i fan di tutto il mondo. Per un’ultima volta indosserà i suoi incredibili costumi fiammeggianti, «ricreati» per l’occasione da Alessandro Michele. Perché, anche grazie a loro, da timido nerd si è trasformato in un’icona del rock
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Questa intervista è tratta dal numero 9 di Vanity Fair, in edicola dal 28 febbraio 2018

«All’inizio la critica era molto colpita dalla mia musica, ma quando cominciai a indossare i costumi tutti dissero che non ce n’era bisogno. E che sarebbe stato meglio che salissi sul palco con un paio di jeans e una maglietta. Ma quello non sarei stato io». Parola di Reginald Kenneth Dwight, noto al mondo come Sir Elton John, ovvero un pezzo di storia della musica contemporanea che affonda le radici in Inghilterra nella seconda metà del Novecento, per restare immenso ancora oggi, quasi 71enne (li compirà il 25 marzo), e pronto ad affrontare un lunghissimo addio alle scene. Era il 2007 quando l’uomo da 300 milioni di dischi venduti e un impatto epocale sul modo di interpretare il rock spiegava a David Buckley, autore di Elton: The Biography, quanto fosse importante per lui completare il suo gesto artistico con dei look assurdi, scandalosi.

Enfant prodige del pianoforte classico e in costante, doloroso attrito con il padre, John già a quindici anni aveva deciso che a Bach, Mozart e Chopin lui preferiva Little Richard e Jerry Lee Lewis. Nel 1969 debutta con il primo album Empty Sky, seguito l’anno successivo da un Lp che porta solo il suo nome. Fin qui tutto più o meno nella norma, il talento di pianista e compositore gli procura consensi, solo che a lui non basta andare sul palco e suonare. L’uomo che firmerà hit planetarie come Rocket Man, Candle in the Wind, Your Song, Crocodile Rock o Nikita ha l’urgenza di indossare mise forsennate, un caleidoscopio di lurex, paillettes, fantasie e colori su cui troneggia la sua leggendaria collezione di occhiali flamboyant.

A quel punto il gioco è fatto e, in barba alla critica bacchettona, Elton John si trasforma in una meravigliosa icona di sfrontata libertà. Diventa una superstar, tanto da essere il primo artista rock occidentale a esibirsi nel 1979 nell’allora viva e vegeta Unione Sovietica. E al netto di montagne russe emotive, riesce nell’impresa di evolvere restando al top, lasciandosi alle spalle le boutade estetiche che lo avevano consacrato. Nelle settimane scorse ha annunciato che il prossimo 8 settembre in Pennsylvania prenderà il via Farewell Yellow Brick Road, un tour mondiale che lo porterà in giro fino al 2021 e che rappresenta il suo addio alle scene, per continuare comunque a dedicarsi alla musica da autore e ai due figli Zachary ed Elijah, avuti assieme al marito David Furnish dalla stessa madre surrogata nel 2010 e nel 2013. Per un commiato lungo tre anni e oltre 300 concerti, però, non poteva rinunciare a costumi degni dei tempi d’oro, così ha chiesto al direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, di creargli un guardaroba ad hoc. Lo stilista, che ha fatto di una moda iperenergetica e sopra le righe la sua cifra di stile, ha avuto accesso all’archivio personale di Sir Elton e si è scatenato in un gioco di rimandi, invenzioni, rielaborazioni per strabiliare il pubblico. Non solo: Michele è rimasto così colpito dall’esperienza da inserire anche nella collezione Primavera-Estate 2018 della maison una serie di omaggi appassionati allo stile di John.

Dopo cinquant’anni di carriera, perché è ritornato sui suoi passi e ha voluto rimettere i panni dell’Elton John più scatenato?«Per me la parola chiave è “cambiamento”. Ho sempre cercato di evolvermi, di andare oltre e negli ultimi anni non sentivo più l’esigenza di vestire in modo tanto esplosivo, però c’è una magia che si crea quando senti una vera e propria affinità con qualche stilista. Mi è capitato negli anni ’70 con Yves Saint Laurent, con Tommy Nutter nella decade successiva e con Gianni Versace negli anni ’90. In questo momento avverto una connessione fortissima con quell’uragano espressivo di Michele da Gucci. Mi piace la sua celebrazione dell’individualità, mi ricorda il mio folle entusiasmo degli inizi per la moda, così ho deciso di aprirgli il mio piccolo tesoro di abiti da scena, una cosa che non avevo mai fatto per nessuno prima, e di lasciargli briglia sciolta. E poi, diciamocelo, non sono mai stato un minimalista, uno da completino beige».

Blue Wonderful: Elton John in concerto
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Che effetto le fa ripensare adesso ai suoi vecchi costumi?«A riguardarli ora mi rotolo dal ridere, ma quanto ci siamo divertiti con Bob Mackie (stilista statunitense che ha firmato anche i look di Diana Ross, Cher, Liza Minnelli, Tina Turner, Barbra Streisand, ndr)! In un’intervista ha detto che vestire me era come avere a che fare con showgirl al maschile, insieme abbiamo avuto idee pazzesche e creato outfit irripetibili tra piume, glitter e paillettes. Anche con Annie Reavey, Tommy Roberts e Mr. Freedom ho ricordi fantastici. Tommy aveva un negozio a Londra che per me era un faro di speranza. Mi sentivo imprigionato nel personaggio di Reggie Dwight, ma l’originalità feroce delle sue creazioni mi diede la forza di reinventarmi, di diventare Elton John. Allora non mi piacevo e mi sentivo oppresso da tutte le imposizioni dei miei genitori. Ero un nerd con gli occhialoni spessi e la trasformazione in Elton John mi ha dato la forza di lasciarmi andare, di osare. A ripensarci, non riesco a credere quanto fossi matto dal punto di vista sartoriale. Con la moda mi sentivo come un ragazzino in un negozio di dolci: non ne avevo mai abbastanza e continuavo a sperimentare look sempre più audaci».

Le star oggi spesso si esibiscono vestite come il pubblico. Quanto è importante per un musicista sviluppare una propria estetica?«Non riesco a salire sul palco se non ho un’immagine teatrale e cerco sempre di fare una distinzione tra la mia vita sotto i riflettori e quella privata. Mi serve indossare un costume per assumere il ruolo dell’artista, ne ho bisogno e i miei fan se lo aspettano. E poi arrivo da una generazione di musicisti inglesi – i Beatles, Mick Jagger, David Bowie, Freddie Mercury, Rod Stewart o Brian Ferry – che si esprimevano anche attraverso i look. È impossibile slegare la loro musica dal loro senso estetico: tutti quanti hanno profondamente influenzato il mondo della moda e continuano a farlo».

Allora non mi piacevo. Ero un nerd con gli occhialoni spessi e la trasformazione in Elton John mi ha dato la forza di lasciarmi andare, di osare

Dopo tanti anni di carriera, che cosa la interessa nella scena musicale contemporanea?«Scoprire nuovi artisti è una cosa che mi appassiona da sempre. Su Apple Music ho un appuntamento radio settimanale che si chiama Elton John’s Rocket Hour in cui segnalo le novità più interessanti. Ricordo bene tutte le persone che mi hanno sostenuto quando non ero nessuno e quanto ha significato per me il loro supporto. Credo nel futuro e ultimamente mi sono appassionato ad artisti emergenti come Khalid, Camila Cabello e Sza. Per non parlare della mia esibizione con Miley Cyrus agli ultimi Grammy: quanto ci siamo divertiti».

C’è un’altra cosa che l’appassiona molto, la Elton John Aids Foundation che l’anno scorso ha raggiunto i 25 anni di attività.«Sono così fiero del lavoro svolto dal 1992, credo che abbiamo avuto un ruolo chiave nel favorire i progressi fatti dalla ricerca e siamo a un punto in cui si può ipotizzare un futuro libero da questa malattia. Il problema però resta ed è inaccettabile l’attuale tasso di contagio tra i giovani: non voglio che i ragazzi di oggi vivano quello che ha dovuto affrontare la mia generazione. E non dimentico chi vive ai margini della società, tra tossicodipendenza, prostituzione e gay ghettizzati da società omofobe, non voglio che queste persone vengano lasciate indietro».

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