«Working poor»: poveri nonostante il lavoro

Un fenomeno assurdo che interessa un lavoratore italiano su dieci ed è in crescita. Ecco alcuni motivi che lo hanno creato
«Working poor» poveri nonostante il lavoro

Si lavora, si percepisce uno stipendio e si spendono i soldi guadagnati per avere una vita dignitosa. Uno schema piuttosto semplice e per alcuni scontato, ma che purtroppo non è applicabile alla situazione di tutti. Già, nel mondo del lavoro esiste infatti una figura che fin dal nome appare assurda: il working poor.

Due termini inglesi per indicare la contraddizione di chi, nonostante un impiego, non riesce a superare la soglia di povertà relativa. In altri termini tutti coloro che con il proprio stipendio non riescono a raggiungere uno stile di vita decoroso.

Ma come? Lavorando quaranta e più ore alla settimana, a fine mese devo rinunciare ad alcune voci della spesa alimentare? Oppure rimandare il pagamento di una bolletta? Oppure, ancora peggio, indebitarmi per sostenere qualche costo straordinario? Beh sì, si tratta proprio di questo e non è una situazione poi così rara.

Secondo i dati dell’Eurostat, in Italia nel 2017 oltre un lavoratore su dieci versava in questa situazione. L’12,3% dei lavoratori italiani, per la precisione, contro una media europea del 9,6%, in aumento del 3% negli ultimi dieci anni. E nella stessa situazione si trovano altri paesi dell’Europa meridionale e dell’est (nella gallery l'elenco dei Paesi dove è più diffuso questo fenomeno). «La percentuale di working poor aumenta inoltre fra chi ha un lavoro temporaneo (16,2%), mentre è del 5,8% fra chi ne ha uno fisso. Se si guarda inoltre al rischio di povertà assoluta, sono le famiglie che includono giovani fra i 18 e i 34 anni quelle più colpite» spiega Sonia Bertolini, professoressa di sociologia del lavoro dell’Università di Torino e curatrice per Carocci del recente Giovani senza futuro?.

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Come si è arrivati ad avere tanti lavoratori poveri nel nostro Paese? Questo fenomeno fa inorridire soprattutto i più giovani in quanto «fanno riferimento alle generazioni immediatamente precedenti che hanno vissuto una situazione lavorativa più positiva. Negli ultimi cinquant’anni nell’Europa occidentale abbiamo avuto una situazione di particolare benessere, in cui il lavoro era contraddistinto da un reddito sicuro, continuo e con un certo numero di tutele».

Un quadro cambiato negli ultimi anni: «se allarghiamo l’orizzonte spazio temporale, ci rendiamo conto che questa situazione si è concentrata in un periodo di tempo».

Il fenomeno dei working poor è nato a causa di diversi fattori, di cui tre sono particolarmente impattanti. Primo fra tutti naturalmente i bassi salari: «in Italia negli ultimi anni i salari non sono cresciuti. Sono inoltre aumentati numericamente lavori in settori contraddistinti da stipendi bassi come quello dei servizi». A fronte di meno soldini in tasca, sono maggiori invece le spese, soprattutto quelle fisse che sono ineludibili, come le bollette per l’energia e l’assicurazione per la macchina. «A questi due elementi si è sommata la discontinuità dell’impiego».

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Sempre più vicini al reddito di cittadinanza.

Ben vengano quindi le misure che cercano di contrastare i momenti di disoccupazione, fra cui il tanto discusso reddito di cittadinanza. Il cui nome tuttavia non aderisce alla vera natura del provvedimento (per quello che si sa al momento). «Questo reddito non è di cittadinanza perché è legato anche alla situazione lavorativa e non solo al fatto di essere cittadino italiano. Il reddito di cittadinanza può far fronte a un problema momentaneo del lavoratore: c’era bisogno di un provvedimento come questo per tamponare l’aumento della povertà che si sta verificando. Tuttavia deve rimanere uno strumento transitorio che permetta di rientrare nel mercato del lavoro e non di rimanere in uno stato di inattività» conclude Bertolini.

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