«Sexual harassment»: non si salva nessuno

In India è «Eve teasing», in Giappone «Sekuhara», da noi si chiamano «molestie sul lavoro»: ecco com'è nata l'espressione «sexual harassment» e come viene regolamentata nel mondo

Come è nata l’espressione «sexual harassment» - le «molestie sessuali», dai commenti equivoci alla violenza sessuale, dall’esibizione di materiale pornografico alle avances - di cui tanto si legge in questo momento sui giornali americani, dopo lo scandalo Weinstein e la campagna virale #MeToo? Lo spiega Lin Farley, ex reporter di Associated Press, attivista e scrittrice, sul New York Times.

Non è stato fino all’aprile del 1975 che le donne hanno avuto una parola per parlare di quello che i loro capi maschi stavano facendo loro

La giornalista, all’epoca impiegata alla Cornell University, aveva pronunciato quell’espressione per la prima volta in pubblico durante un'audizione sulle «donne sul posto di lavoro» della Commissione per i Diritti Umani di New York. Un evento coperto dal New York Times, che fu ripreso in tutti gli Stati Uniti. «Era nato un concetto». Concetto che entra in tribunale un anno dopo, nella causa Williams vs Saxbe, che ha stabilito il «sexual harassment» come una forma di discriminazione. E nel resto del mondo? L’idea è spesso contemplata a livello teorico - ad esempio nella Raccamandazione 19 dell’Onu del 1992, sulla «Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne» - ma altra cosa è la regolamentazione del fenomeno e soprattutto la sua incidenza.

In Gran Bretagna è sempre nel 1975 che il Parlamento emana il Sex Discrimination Act, dove nella violenza di genere vengono incluse vagamente anche le molestie sessuali. La legge viene integrata nel 1986 per includere il «sexual harassment», come anche in Australia, e perfezionata nell’Equality act del 2010 (in australia nel 2011). Un sondaggio di YouGov del 2016 registra che il 52% del campione ha subito molestie sul luogo di lavoro almeno una volta in carriera, il 28% ha ricevuto commenti inappropriato al corpo o all’abbigliamento, il 23% è stata toccata, il 20% ha ricevuto avance, il 12% è stata baciata e l’1% ha subito una violenza sessuale. Solo una su cinque ha denunciato il fatto: l’80% non ha visto cambiamenti, il 16% ha avuto un peggioramento della situazione lavorativa.

In Europa una risoluzione del Palmento europeo nel 1985 raccomanda ai vari Stati di adeguare le proprie legislazioni. Le reazioni sono tiepide. Per prima la Francia, a inizio anni ’90, inserisce le molestie nel codice penale come reato. L’Unione Europea poi nel 2002 emana una direttiva sul «sexual harassment», cui gli Stati membri avrebbero dovuto adeguarsi entro il 2005.

In Italia, dopo le battaglie femministe degli anni ’70 e la definizione del reato di «violenza sessuale»,  che approda come reato nel codice penale solo nel 1996 (prima non era considerato reato contro la persona, ma contro la morale pubblica), è solo il decreto legislativo 198 del 2006 o «codice delle Pari Opportunità» che ha identificato i «comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso con lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un lavoratore o di una lavoratrice e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante o offensivo». Secondo dati Istat, in Italia, nel 2016, oltre un milione di donne ha dichiarato di aver subito molestie sul luogo di lavoro almeno una volta nella vita.

In Germania non esiste una legge che punisce il reato di «sessuale harassment», ma esiste una legge sull’«equità del trattamento» e la «protezione degli impiegati» che obbliga il datore di lavoro a vigilare. Sono previsti periodi di aspettativa retribuita nel caso in cui la vittima dell’abuso avesse bisogno di sospendere l’attività lavorativa. Dopo le violenze sessuali del Capodanno 2015 a Colonia, nel Paese si è riacceso il dibattito sulle molestie sessuali in generale.

In Russia l’articolo 118 del codice penale regola il caso di abusi sessuali sul luogo di lavoro, ma secondo il Centro per gli Studi di Genere di Mosca questi casi non vengono mai sanzionati dai giudici. Secondo uno studio citato dal Daily Telegraph nel 2011 la quasi totalità delle impiegate russe dichiarava di aver subito «sexual harassment» dal proprio datore di lavoro, il 32% di aver fatto sesso almeno una volta col proprio capo e il 7% di essere stata violentata.

In India il «sexual harassment» si chiama «Eve teasing» ed è citato nella Costituzione, ma solo nel 2013 ha emanato la prima legge in materia. In un Paese in cui la percentuale di violenze sessuali è altissima e in cui solo una settimana fa il sesso con una moglie minorenne è stato riconosciuto come «stupro», un’indagine dell’Indian National Bar Association di inizio 2017 ha rivelato che il 38% degli intervistati (maschi e femmine) hanno subito «sexual harassment» al lavoro e di questi il 69% non lo ha denunciato.

In Giappone ha fatto scuola una causa del 1989 vinta da un'impiegata che aveva denunciato un collega che aveva messo in circolazione dei pettegolezzi a sfondo sessuale su di lei. Del caso si sono occupati quotidiani e decine di libri, mentre il termine giapponese per «sexual harassment», ossia «sekuhara» è stata nominata «parola dell'anno». Nel 2016 la prima indagine governativa sul tema ha rivelato che oltre un terzo delle lavoratrici giapponesi tra i 25 e i 44 anni hanno subito molestie al lavoro.