«Gerusalemme è nostra, siamo noi a decidere qual è la nostra capitale»

Le parole di Donald Trump su Gerusalemme hanno «spalancato le porte dell’inferno». Ma quali sono le reazioni di chi ci vive, israeliano o palestinese che sia? Le abbiamo raccolte in città
«Gerusalemme è nostra siamo noi a decidere qual è la nostra capitale»

da Gerusalemme

«Trump non aveva il diritto di fare questo annuncio: non possiede nulla e quindi non ha il diritto di consegnare niente a nessuno. Gerusalemme è nostra, siamo noi quelli che vivono qui da migliaia di anni», Rania, 35 anni, è una madre di famiglia di Gerusalemme Est. Sta aspettando che il marito torni dalla preghiera del venerdì alla moschea di Al Aqsa, e trattiene la rabbia mentre parla. Anche Osher, 28 anni, nata e cresciuta a Gerusalemme Ovest ha un messaggio per il Presidente americano: «Questi non sono affari suoi. Siamo noi a decidere qual è la nostra capitale. Noi non diremmo mai "hey, sai cosa, Miami è la capitale degli Stati Uniti!"». Poi aggiunge un’imprecazione e una risata.

Pochi giorni dopo il discorso con cui Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele, le reazioni dei gerosolomitani oscillano fra l’indifferenza e la rabbia. Oltre le celebrazioni del governo israeliano e le denunce della leadership palestinese, sono gli uomini e le donne che vivono qui a fare i conti con gli effetti di una nuova realtà, che per ora è puramente politica. Hamas, l’organizzazione che dal 2006 ha il controllo della Striscia di Gaza, ha avvertito che le parole di Trump hanno «spalancato le porte dell’inferno» e ci sarà una terza Intifada. Nonostante l’allerta e la coincidenza con il trentesimo anniversario della prima Intifada (iniziata il 9 Dicembre 1987), la vita della città non ha subito scossoni. Per ora. In Cisgiordania e a Gaza le proteste sono state numerose, hanno provocato centinaia di feriti e due morti, ma durante i «giorni della rabbia» proclamati da Hamas per lo scorso fine settimana, le manifestazioni a Gerusalemme hanno attirato solo qualche centinaio di persone. Molto poco rispetto alle migliaia di Palestinesi che a luglio si sono mobilitati per difendere il diritto di pregare nella moschea di Al Aqsa.

«Non c'è niente di nuovo, la capitale di Israele è Gerusalemme». Ahmed fa spallucce. Ha 18 anni, vive a Gerusalemme Est e come quasi tutti i palestinesi intervistati per questo articolo chiede di non usare il suo vero nome. Secondo Ahmed «la decisione di Trump e’ una cosa negativa, ma alla fine nessuno si preoccupa davvero della situazione dei palestinesi, incluso il nostro presidente. Quindi anche se tutti i palestinesi di Gerusalemme scendessero in strada a protestare non servirebbe a niente».

La mattina dopo l’annuncio arrivato dalla Casa Bianca i negozi e le scuole di Gerusalemme Est sono rimasti chiusi per protesta, e poco più di un centinaio di persone si sono ritrovate davanti alla porta di Damasco, l’accesso alla città vecchia usato come punto di riferimento per le proteste. Anche Sama Awiedah, 59 anni, direttrice del Women’s Studies Center a Gerusalemme Est ha deciso di partecipare alla manifestazione spontanea organizzata grazie al passaparola su Facebook. «Trump ha preso una decisione contraria a tutte le risoluzioni delle Nazioni Uniti e alla legge internazionale», afferma Awiedah. «La risposta del presidente Mahmoud Abbas è stata buona ma non all’altezza delle aspettative della popolazione. Noi vorremmo l’interruzione delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e anche del coordinamento sulla sicurezza con gli israeliani». Aweidah si dice a favore della soluzione «Due stati per due popoli» e di Gerusalemme divisa in due, con la parte ad Est capitale della Palestina. Ma molti palestinesi non vogliono condividere Gerusalemme e sono furiosi con il loro presidente. «Non è un leader, praticamente sta dalla parte degli israeliani che gli consentono di restare al potere», afferma Yossef. La disillusione tra i palestinesi è diffusa, e nonostante gli inni alla resistenza, tra gli adulti c'è chi sottolinea che la proclamazione di Gerusalemme capitale ebraica non cambia la vita al punto da spingere i giovani a farsi arrestare per una protesta.

«Le parole di Trump sono molto gravi dal punto di vista simbolico, ma non hanno creato ostacoli alla vita quotidiana dei Palestinesi», afferma Yoni Yahav, 34 anni, dottorando in letteratura araba all’Università Ebraica di Gerusalemme e insegnante di ebraico in una scuola superiore di Gerusalemme Est. In un luogo in cui tutto porta con sé un messaggio politico, i piccoli gesti parlano più delle pietre tirate contro la polizia. Yahav, giovedì scorso avrebbe dovuto fare lezione, ma la scuola era chiusa per protesta contro Trump e nel pomeriggio è stata cancellata una riunione con i dottorandi del quartiere arabo Issawiya. «Questi sono gli effetti divisivi delle parole di Trump», afferma, «non aver menzionato la connessione dei Palestinesi con la città crea problemi reali nelle relazioni fra arabi ed ebrei».

Questo logorio è una delle cose che preoccupano anche le comunità cristiane della Terra Santa. Poche ore prima del fatidico annuncio, i patriarchi e i responsabili delle chiese a Gerusalemme hanno inviato una lettera al presidente americano chiedendo di rispettare lo status internazionale di Gerusalemme. «Prima di tutto i cristiani si chiedono quanta gente dovrà morire per questo», afferma padre David Neuhaus, gesuita, ex responsabile della comunità cattolica di lingua ebraica in Israele. «Per la Santa Sede è importante preservare il carattere di Gerusalemme, che è la città santa per tutte e tre le religioni monoteistiche», ricorda padre Neuhaus. «La Chiesa sostiene che lo status finale della città deve emergere dai negoziati fra Israele e Palestina, non dalla decisione di una sola parte. Ma l’annuncio del presidente Trump rischia di trascinare Gerusalemme al centro del conflitto creando uno sbilanciamento a favore di Israele».  Per una gerosolomitana laica e di sinistra come Naomi Chazan la mossa di Trump è stata una grande delusione. Professore emerito di Scienza Politica all’Università Ebraica ed ex parlamentare tra le fila del partito di sinistra Meretz, Chazan afferma di aver «sempre creduto che Gerusalemme sia la capitale di Israele ma anche della Palestina che verrà. Riconoscere un diritto sulla città solo a uno dei due Stati senza crea una situazione ingiusta e inaccettabile». È presto per capire quali saranno le conseguenze ed è sempre possibile che si inneschi un’ondata improvvisa di violenza. Ma probabilmente ha ragione Daniel Seidemann, avvocato con una grande esperienza delle relazioni tra israeliani e palestinesi. In un tweet ha ricordato che Gerusalemme non è un posto qualsiasi e sarà la città a determinare gli eventi, «perché lei ha sempre l’ultima parola».