Apocalisse in Yemen: tre milioni di rifugiati, 15 mila morti

La guerra civile nello Stato conteso tra Arabia Saudita e Iran è la tragedia umanitaria più grave del mondo in questo momento. Siamo riusciti a entrare nella zona controllata dai ribelli e abbiamo scoperto che la gran parte di vittime e soldati sono bambini
Apocalisse in Yemen tre milioni di rifugiati 15 mila morti

Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Vanity Fair in edicola dal 13 dicembre

di Manon Quérouil-Bruneel

Da Aden, per raggiungere Sana’a assediata, bisogna farsi dodici ore di strada sballottati tra uadi, canyon e altopiani; aggirare Taiz, la linea di confine; superare innumerevoli sbarramenti militari, senza capire quale fazione, tra forze lealiste, ribelli huthi, jihadisti di Al Qaeda, controlla quale parte del territorio, prima di intravedere, finalmente, le case in terra battuta strette dietro Bab Al-Yemen, il cancello centenario che segna l’ingresso alla città vecchia. È segnato da slogan rossi e verdi dei miliziani huthi di Ansar Allah, che se ne sono appropriati nel settembre 2014: «Dio è grande! Morte all’America! Morte a Israele! Che gli ebrei siano maledetti! Vittoria all’Islam!». Sei mesi dopo, questi ribelli, alleati con le truppe dell’ex presidente Saleh (ucciso proprio dagli huthi il 4 dicembre scorso), erano alle porte di Aden. Alcune unità dell’esercito si stavano sollevando, altre restavano fedeli al presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, sostenuto da una coalizione guidata dai Sauditi. La guerra civile nel Sud della penisola araba stava iniziando.

Oggi il bilancio è di 15 mila morti e 3 milioni di sfollati. Sana’a, la capitale ribelle, seppellisce le sue ferite sotto un’apparente normalità. La guerra si attacca al quotidiano tanto da dissolversi. Ogni mattina, come di solito si va a comprare il pane, si va con i secchi a cercare un po’ d’acqua. Di notte si prova ad addormentarsi senza pensare alle bombe che piovono senza interruzione. I bambini non vanno più a scuola, ma sono diventati imbattibili nel riconoscere gli aerei da combattimento. Come gli anziani, indicano il cielo dicendo «Mig».

Mohammed Al Najjar stava cenando vicino a suo figlio addormentato. Un’esplosione ha distrutto la finestra sotto la quale si è ritrovato prigioniero per quasi un’ora, mentre il suo bambino di 3 anni urlava terrorizzato. Una volta andati via i soccorsi, è rimasto inginocchiato nel soggiorno devastato, il suo grande corpo scosso dai singhiozzi. Mohammed vende le uova in strada per sopravvivere, e piange l’unica cosa che possedeva: un tetto. Fuori, una folla infuriata si ammassa sotto le stelle per gridare il suo odio verso la vicina Arabia Saudita, che attacca i ribelli huthi sostenuti dall’Iran, ma anche la sua indignazione di fronte al silenzio complice della comunità internazionale. Davanti agli edifici distrutti della capitale, le statue col viso insanguinato crescono come funghi: sono l’omaggio alle centinaia di civili falciati dai raid.

Nel quartiere di Faj Attan, a sud della capitale, Misarah Mohammed Maisar è sdraiata sotto la coperta in un salottino curato in modo impeccabile. Le sue due figlie si tengono ben dritte al suo capezzale, incorniciando due posti vuoti, come se stessero posando per un ritratto di famiglia incompleto. Il 25 agosto scorso, il raid che mirava a una posizione militare tra le gole delle montagne circostanti ha polverizzato la loro casa. Al risveglio in ospedale, Misarah ha scoperto della morte di suo figlio di 3 anni e di una figlia di 14.E anche che un frammento di granata si era annidato nella sua colonna vertebrale, paralizzandole gli arti inferiori. Le sue gambe non possono portarla così nemmeno alla tomba dei figli. L’operazione che potrebbe forse permetterle di camminare di nuovo costa 5.000 dollari: porta il lutto, l’unica cosa che le è possibile fare.

Da sei mesi, le casse del ministero della Salute sono vuote. L’intero sistema crolla. Anche l’assistenza di base è difficile da fornire. Ghassan Abou Chaar, capo missione di Medici Senza Frontiere, spiega la crisi con i discorsi sul denaro tipici di chi affronta il problema in modo pratico: «Ci si concentra sulla fame che esisteva già prima della guerra, ma oggi la gente muore di diarrea. Si possono avere programmi di distribuzione di generi alimentari da 100 milioni di euro, ma se non ci sono medici per le cure, non servono a niente». Dopo quattordici mesi senza stipendio, ovviamente la tentazione di lasciare è forte.

A Saada, a più di 500 chilometri a nord della capitale, la maggior parte dei medici è rimasta fedele al proprio lavoro. In questa roccaforte di Ansar Allah, curare è tanto una vocazione quanto un atto militante. Culla dei ribelli huthi che praticano lo Zaydismo, un ramo minoritario dello sciismo ereditato da antichi re dello Yemen, la città che si trova vicina al confine con l’Arabia Saudita è stata dichiarata zona militare dalla coalizione araba. Uno dei capi dei ribelli, Abdel Malik Al-Houthi, si nasconderebbe tra le montagne di quest’area. La sua dottrina, ispirata al credo islamico-rivoluzionario di modello iraniano, a quello palestinese di Hamas e alla versione libanese di Hezbollah, seduce una larga fetta della popolazione, a lungo trascurata dal potere centrale. I miliziani di Ansar Allah sono riusciti a riportare l’ordine in questa zona di confine instabile, giustiziando i banditi e riconciliando le tribù rivali, un po’ come fecero i Talebani a suo tempo in Afghanistan, restituendo un senso di sicurezza, a costo della libertà.

L’atmosfera è pesante a Saada, che soffoca sotto un pesante velo ideologico e religioso. I funzionari del ministero dell’Istruzione, anche loro non pagati per mesi, sono stati sostituiti da «freelance» di Ansar Allah. Nelle scuole distrutte ora si insegna principalmente il Corano. Le donne stanno rinchiuse in casa. Quando si arrischiano all’esterno, non si distinguono nemmeno gli occhi, nascosti sotto un doppio velo. Le bambine indossano il burqa fin dall’età di 8 anni, «ma anche prima, se sono carine», dice la direttrice di una delle quattro scuole femminili di Saada.

«Siamo passati dal Wahabismo saudita all’integralismo huthi. In effetti, siamo passati dalla padella alla brace», riassume un giornalista locale. Abbassa la voce per raccontare gli arresti arbitrari e gli omicidi degli oppositori politici. Gli huthi avrebbero trovato un modo molto efficace per sbarazzarsi dei loro avversari: li abbandonano nelle aree prese di mira di solito dai bombardieri sauditi. Questi non hanno che l’imbarazzo della scelta. Moschee, scuole, edifici pubblici sospettati di servire da deposito armi o campo di addestramento... tutto è stato raso al suolo. Saada non è altro che un merletto di cemento.

Seguito da uno sciame di giornalisti locali, il governatore cammina furioso tra le rovine. Nominato tre mesi prima dell’inizio dell’offensiva, Mohammed Jaber Awad usa il suo talento da oratore. In ciò che rimane del tribunale, raccoglie un frammento di granata che brandisce di fronte alle telecamere: «Guardate il regalo dell’Occidente! Il sangue dei bambini yemeniti vale meno del petrolio saudita?». La domanda è pura retorica. Gli Stati Uniti hanno venduto al regime di Riyad equipaggiamenti militari per 20 miliardi di dollari, bombe a grappolo comprese. In meno di un anno ne sarebbero state usate più di 3.500 nello Yemen.

All’ospedale pubblico sono appena arrivate le ultime vittime di queste armi vietate dalla Convenzione internazionale del 2010. Nachmi, 9 anni, è seduto su un letto, con il viso squarciato in due. Sua madre gli mette un braccio attorno alle spalle nude. Il suo sguardo inquieto va da questo figlio sfigurato all’altro, immobile nell’angolo: un proiettile gli è entrato nel cervello, ma non ci sono né strumenti né chirurghi per tentare un’operazione. Il bambino galleggia tra due mondi, lo sguardo in lontananza, abbandonato alla grazia di Dio. Il padre spiega che con i figli stava pascolando le pecore sulla strada quando la bomba è stata lanciata. Venti minuti dopo, una seconda bomba è caduta sui soccorritori. Nel gergo militare, lo chiamano «double tap» (doppio tocco). Nel linguaggio umano, significa semplicemente il doppio delle vittime civili.

Al Masirah, il canale televisivo ufficiale del governo huthi, trasmette continuamente le immagini di queste vittime. Ma in questa guerra, c’è un’altra realtà che sfugge alle telecamere: il numero crescente di bambini soldato per compensare le pesanti perdite subite dai ribelli. Ostinatamente negata dal governo huthi, preoccupato per la sua immagine, la loro esistenza è un segreto di Pulcinella. L’Unicef ha contato più di duemila minori nelle fila di Ansar Allah. «Vediamo sempre più bambini di 10 anni ai posti di blocco», dice Jamal Al-Shami, responsabile di una ong. Non ci sono più le scuole, quindi cercano di darsi da fare, spinti da un cocktail esplosivo di ozio, povertà e patriottismo, esaltato dalle bombe nemiche.

Al centro di riabilitazione di Sana’a, Mohamed Sagaf inaugura la sua nuova protesi. È saltato su una mina, ma sogna solo una cosa: ritornare al fronte. Tra un esercizio e l’altro per abituarsi alla sua gamba metallica, ascolta a ripetizione il canto patriottico di Ansar Allah sul suo telefono. I registri dell’esercito dicono che ha 18 anni. Un parente ammette che ne ha 13.Quando gli si chiede perché si è arruolato, la risposta è immediata: per la jihad, ovviamente. La guerra santa contro l’aggressore saudita, il cemento del supporto popolare per Ansar Allah. E, per molti osservatori, l’unica ragione che li tiene al potere.

Gli huthi, che costituiscono solo un terzo della popolazione, controllano la parte occidentale del Paese. Le strade della capitale fremono con crescente rabbia contro il costo della vita, le tasse imposte sull’elettricità e la benzina, le decime imposte a tutti i negozi in nome dello sforzo bellico. Nei ministeri, gli alti funzionari inveiscono a bassa voce contro questi «beduini appena usciti dalla tenda» che hanno fatto man bassa di potere. Ci si lamenta, ancora più discretamente, della crescente influenza dell’Iran negli affari interni. Questa intromissione, presumibilmente esagerata dall’Arabia Saudita ossessionata dal suo grande rivale nella regione, è al centro di questa «guerra per procura».

Saleh Ali Al-Sammad, il leader politico di Ansar Allah, non vorrebbe che le sue truppe fossero percepite come una forza d’occupazione. «Siamo uno Stato, non dei golpisti!», martella Hisham Sharaf Abdullah, il volubile ministro degli Affari Esteri, che si vanta soprattutto delle «eccellenti relazioni» all’interno del governo. Negli uffici, i politici affilano i coltelli; per strada, la popolazione continua la sua discesa verso gli inferi.

L’epidemia di colera, che stava iniziando a diminuire, minaccia di riprendere per mancanza di medicine. Le diarree gravi si moltiplicano. I sintomi sono simili, non si sa più bene chi soffre di cosa. I medici stanno semplicemente provando a salvare delle vite con mezzi di fortuna. All’ospedale pubblico di Ibb, a cinque ore di strada da Sana’a, il dottor Ali Audi sembra il capitano di una nave alla deriva. Ogni giorno, i medici della sua équipe suddividono i pazienti: separano i casi più gravi da quelli che non lo sono abbastanza. Per alcuni, non c’è più niente da fare. Gli altri sono affidati alla loro sorte. Bisogna risparmiare le risorse. Da qualche giorno, il numero di pazienti ospedalizzati diminuisce. Questa non è una buona notizia, ovviamente. Con il blocco di ogni aiuto dall’esterno, l’Arabia Saudita ha colpito al cuore una situazione già critica. Il prezzo della benzina è triplicato e gli abitanti delle regioni isolate non possono più raggiungere l’ospedale. Allora, muoiono in casa. Il dottor Audi sospira: «Le famiglie non possono permettersi l’alloggio o il cibo. Anche quando ci portano un bambino tra la vita e la morte, finiscono per andarsene. Pur sapendo che non sopravviverà».

di Manon QuÉrouil-Bruneelfoto véronique de viguerie

(traduzione di Valentina Mainelli)

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