Facebook al tappeto?

Silenzio, scuse e qualche correzione. È il metodo di Mark Zuckerberg per reagire alle crisi. Ma dopo lo scandalo Cambridge Analytica sui dati degli utenti, il social network è a una svolta storica. Obiettivo: riconquistare la fiducia degli iscritti e degli inserzionisti
Facebook al tappeto

Nella Silicon Valley lo chiamano, accompagnandolo con un sorriso, The Zuck’s playbook, il manuale di Mark Zuckerberg: è il metodo, unico e formidabile, del fondatore di Facebook di reagire alle crisi che negli anni hanno travolto l’azienda. A cominciare dalla prima, datata 2006, quando l’introduzione della sezione Notizie — regolata da un algoritmo che decide cosa vedere — suscitò l’ira di alcuni utenti. Allora come oggi, mentre lo scandalo Cambridge Analytica si abbatte su Facebook — accusato di aver condiviso con uno psicologo di Cambridge i profili di 50 milioni di utenti, senza il loro consenso, finiti poi nelle mani della temibile agenzia di marketing — il comportamento di Zuckerberg segue un pattern comune: silenzio, attesa, un post di scuse sul suo profilo Facebook, e qualche intervista per affermare che l’azienda è al lavoro per sistemare il problema.

Per dirla con le parole di Ari Waldam, direttore dell’Innovation Center for Law and Technology della New York Law School: «Ogni volta che viene svelato un comportamento inopportuno, Mark Zuckerberg si scusa e ammette, in una forma o nell’altra, che Facebook ha tradito la fiducia dei suoi iscritti. Dopo di che, la compagnia fa un passo in avanti verso la soluzione, che è sempre minore e incompleto: può significare cambiare qualche parola nella policy sulla privacy, ridisegnare la squadra che se ne occupa, ma alla fine, l’azienda dimostra che non ha alcuna intenzione di prendere sul serio la privacy dei propri utenti».

Come ha scritto l’esperto dei media Farhad Manjoo, più che un visionario, Zuckerberg è soprattutto un «reattore». Da quando il social network che conta più di 2 miliardi di iscritti è stato lanciato, il suo ruolo è stato principalmente quello di porre rimedio con fatica a tutti gli errori che si mostravano lungo il percorso: pubblicità discriminatorie, pedopornografia, cyberbullismo, numerazione sbagliata di clic e videoviews, violazioni di accordi, omicidi in diretta, fake news e infiltrazioni di potenze straniere. In tutti i casi, l’azienda di Menlo Park ha seguito lo stesso schema per contenere il problema: aspettare a testa alta che la tempesta passasse.

Tuttavia, per capire come siamo arrivati a Cambridge Analytica, è necessario tornare alle origini. Facebook nasce nel 2004 in un clima che unisce alla fede indiscussa nella tecnologia come mezzo per migliorare il mondo, l’assenza assoluta di leggi per regolarne lo sviluppo. «Connettere le persone di tutto il mondo» non è solamente il sogno di un ragazzino di Harvard con un’ambizione spropositata e qualche difficoltà a socializzare, ma l’utopia di uomini e donne che credono nel potere di internet di abbattere confini, gerarchie e ingiustizie vecchie di secoli. È così, approfittando del vuoto legislativo e dell’entusiasmo della comunità, che Facebook cresce a dismisura negli anni, trovando nei dati dei suoi iscritti — nei loro gusti, abitudini, preferenze, opinioni e nelle loro relazioni — il nuovo oro del XXI secolo. Il motto, pericolosissimo, è sempre lo stesso: «Move fast and break things». Ovvero: muoviti velocemente e rompi tutto.

Su questa pista a ostacoli ci sono aspetti che Zuckerberg riesce ad aggiustare facilmente: per esempio, realizza con sorprendente velocità il passaggio da una piattaforma fatta a misura (pubblicitaria) di pc a una che oggi vive al 90 per cento di ricavi che provengono dalla pubblicità su mobile. O ancora, in tempi più recenti, messo sotto processo per l’incapacità dell’algoritmo di Facebook di distinguere il vero dal falso, riesce a trasformarsi da distributore di bufale ad aspirante garante della corretta informazione degli utenti.

Eppure sono in molti a credere che la vicenda di Cambridge Analytica sia diversa dalle precedenti, poiché — come nessun’altra prima — obbliga l’azienda a intervenire sul suo Dna, costringendola a rinnegare ciò che le ha permesso di diventare la numero uno.

I dati in possesso della controversa agenzia inglese, che ha il burattinaio della destra populista Steve Bannon tra i suoi consiglieri, non sono stati rubati con qualche tecnica complicata e innovativa, ma sono stati semplicemente «passati» da un soggetto all’altro in una scala crescente di interessi commerciali e politici della piattaforma. L’uomo da cui tutto parte è un giovane ricercatore polacco che — all’inizio degli anni Duemila — vuole sfruttare la potenzialità del nuovo social network ai fini della conoscenza. Si chiama Michal Kosinski e si occupa di psicometria, la scienza che studia la personalità di un individuo. Il metodo su cui lavora è detto «Ocean», efficace acronimo che si basa su cinque aspetti della personalità: apertura mentale, rispetto verso gli altri, coscienziosità, socievolezza e stabilità emotiva. Il ricercatore è convinto che, sulla base di questi parametri, sia possibile conoscere le caratteristiche psicologiche di un individuo. Cosa, se non una piattaforma con milioni di persone, poteva essere più utile per testare il suo metodo? Fu così che Kosinski, approdato all’Università di Cambridge, comincia a sperimentare su Facebook un test della personalità, i cui risultati — uniti ad altre informazioni disponibili sul social network — riescono a fornire un profilo abbastanza accurato di un essere umano. «Nel 2012», scrive il settimanale svizzero Das Magazin, «Kosinski dimostrò che con una media di 68 like dati da un utente su Facebook era possibile prevedere il colore della pelle, l’orientamento sessuale, l’appartenenza politica» e molto altro. Nonostante l’entusiasmo per i risultati, lo scienziato intuì la pericolosità di quel sistema al punto da scrivere nero su bianco che le sue scoperte (che saranno prese e «rivendute» a Cambridge Analytica dal collega Aleksandr Kogan) potrebbero «costituire una minaccia per la vita delle persone».

Nella catena che unisce il ricercatore in buona fede Kosinski al malvagio uomo di propaganda Alexander Nix, l’ex Ceo di Cambridge Analytica che avrebbe facilitato l’ondata populista in Occidente, c’è la trasformazione di internet nel più imponente strumento di raccolta di dati sugli individui e, di conseguenza, nella più potente arma di marketing, elettorale e commerciale.

Sebbene Zuckerberg abbia garantito nei giorni scorsi che in azienda stanno esaminando tutti i contratti stipulati negli anni con le app presenti sul social network per capire chi e quando avrebbe ceduto a «terze parti» le informazioni degli utenti, l’attenzione sembra essere ancora una volta sui dettagli: Facebook — sostiene l’esperto di privacy Woodrow Hartzog — «ha costruito un modello incredibilmente redditizio, ma al tempo stesso incredibilmente fragile da sfruttare». Al di là delle intenzioni del fondatore, è proprio il sistema su cui si regge Facebook — una mole enorme di dati personali che possono essere facilmente sfruttati dalle aziende per fini commerciali attraverso un sistema opaco — ad aver trasformato, come ha scritto la sociologa Zeynep Tüfekçi, il social network in una «gigantesca macchina di sorveglianza».

«Viviamo in un’epoca feudale dal punto di vista della sicurezza», ci spiega Frank Pasquale, autore del libro cult The Black Box Society. «Le piattaforme come Facebook hanno un potere assoluto sui nostri dati, e in cambio dovrebbero proteggerci dai “cattivi”. Ogni volta che la fiducia si rompe, questo mostra che l’intero modello è rotto». È questo a preoccupare il mercato più di qualsiasi cosa. Vanity Fair ha avuto accesso a un report del Pivotal Research Group secondo cui Facebook starebbe mostrando segnali sistemici di cattiva gestione: «Gli investitori devono tenere in considerazione che, indipendentemente da come si concluderà quest’ultimo episodio», si legge nel documento, «l’azienda è cresciuta in una maniera tale da diventare insostenibile dal punto di vista gestionale».

L’ultimo scandalo fornisce una prova inconfutabile: in due anni e mezzo — il tempo trascorso da quando Zuckerberg ha appreso che Cambridge Analytica era in possesso dei dati di 50 milioni di utenti — la compagnia non è riuscita a intraprendere alcuna azione per arginare o limitare il danno.Per individuare le responsabilità e i buchi di gestione, nelle prossime settimane Mark Zuckerberg sarà ascoltato da commissioni politiche e giudici sulle due sponde dell’Atlantico.

Nonostante il titolo continui a essere valutato nell’anno corrente non meno di 159 dollari ad azione, è l’occhio pubblico a turbare i mercati: «Non crediamo che all’improvviso il mondo pubblicitario cambierà la propria traiettoria di spesa sulla piattaforma», ci spiega l’analista di Pivotal Brian Wieser, «tuttavia i rischi sono rafforzati in tre direzioni: una maggiore regolamentazione della piattaforma; la limitazione dell’uso dei dati nel mondo pubblicitario; e una feroce restrizione del ruolo delle terze parti». Ecco la grande scommessa delle prossime settimane: «Dovranno spiegare agli analisti che la regolamentazione sarà minore di quello che sembra, e non avrà un impatto negativo».

Nell’assurdo gioco del mercato, potrebbe essere proprio un passo indietro responsabile di Facebook sul controllo dei dati degli utenti a danneggiare l’impero, il cui valore di mercato si attesta oggi — nonostante lo scandalo — a 475 miliardi di dollari. Se è vero che non siamo in grado di valutare quale sarà l’impatto dello scandalo sul futuro di Menlo Park (e sul web sociale per come lo abbiamo conosciuto finora), di certo l’episodio fa tramontare qualsiasi possibilità di vedere Zuckerberg in un ruolo politico nel futuro prossimo, e rende la conquista della Cina — il grande sogno dell’imprenditore — sempre più improbabile. A meno di sorprese e colpi di scena, che di sicuro non mancheranno.

Illustrazione di Jake Rowland/Esto elaborata da foto di David Ramos/Getty Images (Testa) e Plush Studios/Getty Images (Bocca)

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