Il Pd ha un problema con le donne?

Sette uomini a contendersi una leadership e una serie di candidate messe come figurine in più collegi per aggirare le quote rosa. «Un gioco scorretto», l'ha definito Rosy Bindi, «cui si sono prestate le stesse donne». Che, secondo Nadia Urbinati, «non sempre mostrano solidarietà tra di loro»
Il Pd ha un problema con le donne

Sette uomini a contendersi una leadership, una quota di elette in Parlamento inferiore al 40% e una serie di candidate messe come figurine in più collegi per aggirare le quote di genere della legge elettorale. Tre indizi per una domanda: anche il Pd ha un problema con le donne?

Il partito uscito con le ossa rotte dalle elezioni del 4 marzo si rivede in Direzione lunedì 12.Ordine del giorno: annunciare le dimissioni del segretario, studiare la strategia delle prossime settimane e preparare il dopo-Renzi. A contendersi il suo posto, secondo le indiscrezioni, ci sono sette uomini (Nicola Zingaretti, Maurizio Martina, Graziano Delrio, Paolo Gentiloni, Carlo Calenda, Roberto Giachetti e Sergio Chiamparino). E neanche una donna, come fa notare la vicepresidente del partito Barbara Pollastrini. «Dobbiamo dare valore alle donne del nostro Paese», ha anticipato in una nota, riferendosi soprattutto all'«insufficiente numero di elette» nel partito.

Già, il nuovo Parlamento ha la più alta percentuale rosa della storia repubblicana, il 34%. Il partito più rosa è il Movimento 5 Stelle (40%) seguito da Forza Italia (35%), Pd (34%), Lega e Fratelli d'Italia (30%) e Liberi e Uguali (28%). Una buona notizia? Mica tanto. Il risultato è dovuto alla nuova legge elettorale, che imponeva l’obbligo di alternanza di genere nelle liste e l'elezione di almeno il 40% di donne.

Un'imposizione che i partiti hanno in parte aggirato con uno stratagemma che vale la pena di essere spiegato. Grazie al sistema delle pluricandidature (che permette di candidare una singola persona in sei collegi), i partiti hanno inserito diverse donne come capilista in tanti collegi. Una volta che sono state elette, hanno dovuto scegliere soltanto un collegio in cui farsi eleggere, liberando così cinque posti (i collegi rimanenti in cui erano candidate) ad altrettanti uomini che in quei collegi erano candidati dopo di loro.

Il Pd ad esempio ha presentato tre donne in sei diversi collegi: Maria Elena Boschi, Marianna Madia e Rosa Maria Di Giorgi. E altre due in cinque collegi: Lucia Annibali e Simona Malpezzi. «C’è da aspettarsi che queste pluricandidature apriranno la strada, per ogni candidata eletta, e cinque (o quattro, o tre) uomini», commentano i ricercatori dell'Istituto Carlo Cattaneo, che hanno dimostrato come le pluricandidature siano state riservate soprattutto alle donne.

«Si erano accorti che non avevano un numero sufficiente di donne nelle liste e le hanno inzeppate di pluricandidature della Boschi, della De Giorgi», ha spiegato candidamente l'ex senatore Pd Ugo Sposetti. «Così hanno potuto eleggere altri maschi fedeli e senza che le donne alzassero un dito per protestare contro questo scempio».

Un sistema seguito da altri partiti come Fratelli d'Italia (che ha il record delle pluricandidature), a eccezione del Movimento 5 Stelle, che infatti ha la quota più alta di donne elette. «Le stesse donne si sono prestate a fare un giochetto non troppo corretto, cioè quello delle pluricandidature. E hanno fermato così 50-60 donne pronte a entrare in Parlamento», ha attaccato Rosy Bindi, che ha poi commentato amaramente. «Non sempre le donne conoscono un valore fondamentale che è quello della solidarietà».

«Se è vero che le pluricandidature sono state un modo per aggirare le quote di genere, è un fatto grave», racconta a Vanity Fair.it Nadia Urbinati. «E sì, concordo che le donne non sappiano essere sempre solidali». Per la politologa e professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York, la politica non deve essere femminile per ragioni dogmatiche: «Sarebbe insensato votare una donna solo perché è donna. Ma sarebbe positivo vedere rispecchiata in Parlamento la pluralità del paese». Sarebbe utile avere questo pluralismo anche nella fase delle trattative delle prossime settimane, per evitare di renderla mono-tonica, «tutta muscolare, e con i convenuti al tavolo propensi a uno stile maschile e aggressivo».

Di Maio, Salvini, Berlusconi, Renzi o chi ne farà le veci si siederanno al tavolo delle trattative alla guida di «blocchi omogenei di potere». Tanti uomini, a tentare di parlare con altri uomini. «Ma diverse analisi psicosociali hanno dimostrato che gruppi più variegati, composti di persone di generi e di generazioni diversi hanno più probabilità di meglio interagire e di concludere con successo la trattativa», continua Nadia Urbinati. «Il pluralismo rende i partner piu' disposti a cercare di smussare posizioni pre-definite, ascoltare l'altro e anche meglio accomodarsi alla diversità».

Per la politologa, la presenza femminile, che non sia solo di facciata, è augurabile anche per garantire slanci riformatori su determinati temi: «Nei vecchi partiti di massa, temi come le pari opportunità o le questioni di genere erano inquadrati nell'ideologia del partito stesso. Adesso che quei partiti ideologici sono finiti, è necessario che chi si fa portavoce di quei temi sia più visibile e abbia una voce ben definita».

Quindi, le donne. Che, suggerisce Urbinati, dovrebbero recuperare quella solidarietà di cui parlava la Bindi e il mondo associazionistico: «Servono lobby positive, che portino avanti temi come il diritto alla maternità, l'organizzazione del lavoro e il gender gap. Lobby che non si limitino, com'è ora in Italia, a monitorare e a denunciare i problemi, ma che propongano soluzioni legislative concrete, e che nel medio e lungo periodo producano candidate forti e credibili, perché non isolate individue». Candidate efficaci, più che pluricandidate.

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