La rivoluzione abita ancora a Tahrir

I loro nomi sono famosi in tutto l'Egitto: Wael Abbas, Ahmed Maher, Zeinab Mohamed, Lina Attallah. Dalle piazze al web, insorgono contro la repressione del governo e protestano per le migliaia di prigionieri politici. Li abbiamo incontrati in occasione dell'anniversario
La rivoluzione abita ancora a Tahrir

da Il Cairo

Il suo archivio è scomparso. Wael Abbas, blogger e attivista della rivoluzione egiziana, ancora non se ne capacita. Più di 10 anni di foto, video e tweet non sono più accessibili da quando lo scorso mese Twitter ha sospeso il suo profilo che contava più di 350.000 followers. «Mi hanno spiegato che alcuni dei miei contenuti sono stati segnalati ma non sono riusciti a dirmi esattamente quali e perché», racconta.

Il caso di Abbas è l'ultimo, e forse il più emblematico, episodio di repressione governativa che, oltre ai 40.000 prigionieri politici, ha allargato la sua morsa anche su Internet. Negli ultimi mesi, con l'approssimarsi delle elezioni presidenziali (in calendario per la fine di marzo) e dell'anniversario del 25 gennaio 2011 - quando migliaia di manifestanti occuparono piazza Tahrir per ribellarsi al regime di Mubarak-  centinaia di siti web sono stati bloccati, mentre l'utilizzo di sofisticati sistemi di sorveglianza permette uno stretto controllo sui social network e sulle app di messaggistica. A farne le spese sono gli attivisti, quelli che 7 anni fa avevano raggiunto la ribalta internazionale raccontando, anche a chi non conosceva l'arabo, le proteste e le rivendicazioni sociali della popolazione egiziana. Personaggi ambìti anche dai grandi giornali che spesso e volentieri usavano i loro tweet su Tahrir come «opinionisti» per le vicende del Cairo e dintorni.

Tutto ciò sembra un lontano ricordo, così come lo sono le richieste di pane, libertà e giustizia sociale che il popolo egiziano urlava a gran voce.

Molti di quei ragazzi di allora hanno lasciato il Paese, altri sono in carcere come l'icona della rivoluzione Alaa Abdel Fattah. Ahmed Maher, fondatore del movimento «6 aprile», l'uomo che insieme al manager di Google Wael Ghonim, è stato l'ideatore delle proteste del 25 gennaio 2011, dopo una detenzione durata quasi 4 anni è ancora oggetto di una misura cautelare e ha deciso di ridurre al minimo i rapporti con la stampa.

«Alcuni hanno impostato i loro profili social come privati e non parlano più di politica. Come posso biasimarli? L'asticella ormai è troppo alta», continua Abbas dalla sua casa del Cairo. All'ingresso sono ancora affissi gli adesivi che ricordano le battaglie e gli slogan di piazza Tahrir.

«Perché sono rimasto? Ho 43 anni, sono troppo vecchio per lasciare l'Egitto. E poi qualcuno dovrà pur continuare a lottare per restituire dignità a un Paese che sta crollando a livello economico, e dove le libertà personali sono sempre più ristrette».

L'impegno di Wael nella politica era iniziato già nel 2004: all'inizio commentava gli affari egiziani nei forum e nelle chat room, poi l'attività giornalistica che ha avuto il suo culmine tra il 2011 e il 2013, gli anni in cui dopo la caduta di Mubarak l'Egitto ha vissuto una fase di transizione politica terminata con il colpo di stato dell'allora generale Abdel Fattah al-Sisi. Ora è impegnato nella campagna per sostenere l'avvocato per i diritti dei lavoratori Khaled Ali alle elezioni presidenziali del prossimo marzo. Già in corsa alle elezioni del 2012, Ali ha ben poche chance di fronte a una consultazione che in un clima di totale repressione vede gli altri candidati ritirati o estromessi e sembra spianare la strada al secondo mandato di al-Sisi.

«La comunità internazionale ci ha abbandonato. Prima eravamo al centro del mondo, rappresentavamo il modello delle proteste e dell'autorganizzazione dal basso. Ora l'Europa pensa ai suoi interessi, agli accordi commerciali», continua, «Avete visto anche voi con la morte di Giulio Regeni che gli interessi commerciali vanno oltre, sono al di sopra persino di una vita umana. Siamo rimasti tutti soli».

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Tra i rivoluzionari ancora attivi sui social media c'è anche Zeinab Mohamed: con il suo nickname Zeinobia è seguita su Twitter da circa 235.000 follower. Il suo blog Egytpian Chronicles, attivo da quasi 10 anni, alterna post sull'attualità egiziana a un ricco archivio storico sul Paese. «Il governo egiziano sta tentando di sorvegliarci, di sospendere i nostri account, di bloccare i siti Internet e di approvare nuove e draconiane leggi sfruttando alibi come il terrorismo e il cybercrime», racconta. «Per le strade non è possibile protestare, ma sul web c'è ancora un margine di manovra: il cambiamento rimane possibile nonostante in Egitto non ci sia più un panorama politico».

Chi tra gli oppositori è rimasto attivo ha imparato a tenere un profilo basso, si muove sfruttando i pochi spazi liberi rimasti con la consapevolezza che la posta è in gioco è molto alta. Lo sa bene Lina Attallah, fondatrice di Mada Masr, l'unico giornale in lingua inglese e araba di opposizione del Paese. Da circa 6 mesi il sito non è più accessibile in Egitto, vittima della censura governativa che ha colpito non solo Mada Masr, ma altre centinaia di portali di informazione o gestiti da associazioni per i diritti umani. Lina, 50.000 follower, guida una redazione composta da molti giornalisti che si sono formati seguendo le proteste del 2011 con diversi media privati che negli anni hanno perso la loro indipendenza. «Sappiamo che il nostro lavoro comporta molti rischi», ci spiega. «La nostra esperienza è iniziata nel 2013, il giornale per cui lavoravamo aveva chiuso la sua edizione in inglese. Così abbiamo preso un appartamento in affitto, abbiamo recuperato le scrivanie tramite delle donazioni e abbiamo lanciato il nostro portale».

Un lavoro unico nel suo genere in Egitto che va avanti affrontando la censura e le minacce. «Le tematiche sociali, economiche e politiche non hanno una copertura adeguata e indipendente in questo Paese. Per questo noi continuiamo, nonostante tutto». Al-thaura mustamerra, la rivoluzione continua, cantava la piazza. Sette anni dopo c'è ancora chi ci crede.

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