Alfonso Sabella: «Mi hanno condannato a morte»

Ha fatto arrestare un centinaio di latitanti. Parlato, tra i primi, della trattativa Stato-mafia. Mandato le ruspe a demolire gli abusi sui lidi di Ostia. Eppure, il magistrato Alfonso Sabella qui lancia un grido disperato: «Ho pensato di farla finita»
Alfonso Sabella «Mi hanno condannato a morte»

Pasqua, un bar della Romanina, periferia est di Roma. Un uomo in un bar dice al titolare che lì comandano loro, un altro si slaccia la cintura e picchia una donna, colpevole di aver osato difendere il proprietario non abbastanza rapido nel servirli, secondo i due. Almeno sette persone, intente a giocare ai videopoker, guardano la scena, senza muoversi. «È l’immagine plastica del 416 bis, l’associazione di tipo mafioso: c’è l’intimidazione e la condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva». Non ha dubbi Alfonso Sabella, guardando il video del pestaggio diffuso solo ora da Repubblica – che ha accelerato l’indagine dei carabinieri portando all’arresto di quattro membri del clan Casamonica. Il magistrato ed ex assessore alla Legalità di Roma nel 2015, all’epoca, cioè, del contestatissimo funerale di Vittorio Casamonica, in pieno scandalo Mafia Capitale, era andato in tv a Porta a porta a dire che di quel clan avremmo ricordato solo la carrozza barocca, i petali e le musiche del Padrino. Non le violenze. «Adesso ricorderemo la cintura. E se è vero che la gente non reagisce, è anche vero che abbiamo un esercente che denuncia, e succede raramente, e che riapre dopo due giorni dall’aggressione. È un segnale importantissimo».

Lei è l’autore dell’autobiografia Cacciatore di mafiosi: ha fatto arrestare 1.752 mafiosi e circa un centinaio di latitanti, da Brusca a Bagarella, durante la sua carriera a Palermo dopo la stagione delle stragi 1992-93.«Ma confesso: non avevo la vocazione. Volevo diventare il più giovane avvocato della Cassazione, entrare in magistratura avrebbe accelerato i tempi. Poi però ho conosciuto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sono stato chiamato dallo Stato». Sta per arrivare il 23 maggio, anniversario dell’attentato a Falcone. È un giorno più doloroso per lei?«Inizio a pensarci da inizio maggio. Ma poi penso anche a Paolo Borsellino a luglio e a Don Puglisi a settembre. Quando è morto Falcone avevo 29 anni. La pioggerellina del funerale del 25 maggio 1992 la posso ancora sentire, era il giorno del mio anniversario di nozze. Il 22, ventiquattr’ore prima che Falcone saltasse in aria a Capaci, ero passato sopra la bomba anche io, andando all’aeroporto a prendere mia moglie Cristiana». Ha un aneddoto che la lega a Falcone?«Sapeva che nel palazzo di giustizia l’unico altro magistrato che fumava le pesantissime Dunhill rosse ero io, quindi quando le finiva le chiedeva a me». Avrebbe immaginato allora che in seguito sarebbe stato proprio lei a catturare, nel 1996, l’esecutore materiale della strage, Giovanni Brusca?«Eravamo distrutti, ma eravamo anche molto arrabbiati». Qual è il consiglio che ha dato a Francesco Montanari, che la impersona nella serie tv Il cacciatore?«Quando mi ha chiesto quale fosse lo spirito da tenere durante gli interrogatori, gli ho detto che bisognava trattare con umanità i mafiosi, anche se non si deve restituire loro la dignità, perché si tratta sempre di criminali che hanno agito per biechi interessi. La notte tra il 26 e il 27 luglio 1996 non ho chiuso occhio pensando se dovessi o meno dare la mano a Brusca, che avrei incontrato il giorno dopo».

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Alla fine gliel’ha data?«Sì. Durante un interrogatorio rappresenti lo Stato, e lo Stato usa umanità. Non darla sarebbe stato un gesto di arroganza gratuita». C’è un’altra mano nella sua vita, quella di suo padre, noto avvocato del suo paese, Bivona, in provincia di Agrigento, e il capomafia locale, che platealmente gliela stringe: lanciando il messaggio che l’attentato progettato contro di lei nel 2002 non si farà.«C’era questa intercettazione che mi indicava come possibile bersaglio. La cosa era uscita sui giornali e dopo due giorni ci fu quella stretta di mano simbolica, che nel loro linguaggio significa che avevano cambiato idea». La scorta le era appena stata tolta, nel 2002, quando l’hanno spostata dal ministero di Giustizia a Firenze.«Ho avuto una “tutela”, ossia una sola persona, fino al 2006.Arrivato a Firenze, la prima cosa che ho fatto è stata comprarmi uno scooter. Non volevo la scorta, mi sono opposto, limitava troppo la mia libertà». Quando si occupava di Ostia, nel 2015, ha detto che girava armato.«È successo poche volte. Ma col senno di poi avrei dovuto uscire armato sempre. Perché a Ostia ho mandato le ruspe a demolire gli stabilimenti, ho toccato interessi molto importanti». Ha cambiato molti incarichi, che cosa le piaceva di più fare?«L’adrenalina degli anni di Palermo è impagabile, ma il lavoro più bello per me è stato quando facevo il giudice monocratico a Roma, dal 2005 al 2011: piccole cause, scippi alle vecchiette sugli autobus... Insomma, la vita vera. A Palermo quello che mi è mancato è stata la vita vera». Viveva in una bolla.«Esatto. Avevo perso qualsiasi contatto con la realtà. Me ne sono reso conto quando pigliavo dei calci sotto il tavolo da mia sorella o dalla mia ex moglie a cena. Raccontavo agli amici i dettagli di autopsie e riesumazioni di cadaveri». A che cosa ha rinunciato in quegli anni?«A vivere». Sua moglie è diventata «ex» per quello?«Faccio un po’ di autocoscienza: il mio matrimonio è finito anche a causa del mio lavoro. Ho dovuto spedire mia figlia Carlotta e mia moglie a Milano. Con lei ho ottimi rapporti e ce li avrò per tutta la vita perché ci vogliamo comunque bene, ma dopo tanti anni di lontananza, quando ci siamo ritrovati ci siamo scoperti due persone diverse, cresciute in modo diverso. Ora ho una compagna che è anche lei un magistrato a Napoli». Carlotta quanti anni ha?«Le manca poco per laurearsi in giurisprudenza». Ha seguito le sue orme.«Quelle di tutta la famiglia, fatta di avvocati e magistrati. Del resto era impossibile fare diversamente visto che, quando era piccola, oltre a raccontarle le favole del principe nero-azzurro, che era Ronaldo – sono interista – prima di dormire le leggevo e spiegavo gli articoli della Costituzione. A lei piaceva tantissimo». Ha iniziato da avvocato presso lo studio dei suoi genitori: si era fatto notare come «avvocato dei cacciatori», riuscendo a fare assolvere parecchi imputati di bracconaggio. Non è in contrasto con il magistrato cacciatore di mafiosi?«Anzi: la frequentazione dei cacciatori di frodo mi ha aiutato a imparare le tecniche per prendere i latitanti, anche se non ho mai ucciso un animale. Il mio libro infatti si apre, a differenza della serie, con la scena dell’autopsia di un coniglio di cui si deve accertare l’ora del decesso». Parlando di futuro. Non pensa di catturare Matteo Messina Denaro, uno degli ultimi latitanti?«Posto che Matteo si è marginalizzato, è difficile da prendere perché non è, a differenza di Provenzano all’epoca, il capo di Cosa Nostra, pur restando il capo mandamento di Trapani, io di sicuro non tornerò “cacciatore”. Un po’ perché è una parentesi chiusa della mia vita, un po’ perché sono indipendente, non sono legato ad alcuna corrente della magistratura e quindi non faccio richiesta di incarichi direttivi». Scusi, perché lo chiama Matteo, per nome?«Non so, forse perché ha un lungo cognome. Pensi che Brusca lo chiamava Messina Matteo Denaro, con il nome in mezzo». Ad aprile è arrivata la sentenza del processo sulla trattativa Stato-Mafia, che ha condannato boss, tre alti ufficiali dei carabinieri e il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri: lei è stato tra i primi a parlarne. Di fatto è una sentenza che le dà ragione.«È uno dei pochi casi in cui uno non vuole avere ragione. Potrebbe essere una soddisfazione personale, ma non lo è mai per un uomo dello Stato scoprire che c’è stata una trattativa simile». A settembre era stato nominato alla Corte dei Conti, ma poi la nomina è stata ritirata dal premier Paolo Gentiloni. Adesso quale è il suo incarico?«Faccio il mio dovere al Tribunale di Napoli. Ma non vedo l’ora che arrivi la pensione». Ha 55 anni, è un po’ presto.«Sono profondamente deluso da questo Paese». Si riferisce a quel ritiro e poi alla condanna in primo grado a risarcire alla Corte dei Conti parte del danno erariale per i soldi che lo Stato ha dovuto dare ai detenuti del carcere provvisorio di Bolzaneto? Era il 2001, nei giorni del G8 a Genova, e a lei, in quanto capo del servizio ispettivo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, era stata affidata la responsabilità di Bolzaneto.«Sono stato archiviato nel processo penale, ma sono stato ritenuto responsabile in via sussidiaria. Sono amareggiatissimo perché dopo aver sempre dato la possibilità a tutti, anche ai peggiori criminali, Totò Riina compreso, di difendersi, a me – che sono stato l’unico in quel processo a rinunciare alla prescrizione, che sono stato archiviato ma l’unico a chiedere di essere processato – non è mai stata data la possibilità di produrre un documento o far sentire un testimone…». A quanto ammonta il risarcimento?«A circa un milione di euro che potrà diventare il doppio se viene accolta un’eccezione di incostituzionalità. Esattamente il doppio del mio patrimonio. Farò appello e spero che mi consentano di far sentire almeno un testimone, perché la mia posizione è pacifica: dove, e solo dove, ero presente io non è stato torto un capello agli arrestati e le disposizioni da me date sono state ritenute pienamente corrette dal Tribunale. Ma se non mi daranno nemmeno questa possibilità, significa che la decisione è stata presa, significa che sto pagando il fatto di aver detto frammenti di quella verità sul G8 di Genova che nessuno ha voglia di sentire, su quello che è accaduto a Genova realmente in quei giorni: il piano degli arresti preventivi cambiato in corso d’opera per aizzare i manifestanti, le responsabilità della Procura… Sono l’unico tra gli uomini dello Stato che ha raccontato le verità che sapeva. Di fatto mi stanno condannando a morte». Perché parla di morte?«Non ho alternative: se la sentenza passa in giudicato, il danno e la responsabilità erariale diventerà trasmissibile agli eredi». Sta dicendo che ha pensato al suicidio per salvare sua figlia da un debito?«Ci ho pensato, e non solo per motivi economici. Sono stato un fottuto idealista, ma mi devo arrendere al fatto che ho sacrificato tanto allo Stato e ora lo Stato sacrifica me. Prima mi sbatte a Firenze quando scopro e ostacolo la “dissociazione” dei mafiosi (la presa di distanza da Cosa Nostra, senza pentimento, che avrebbe consentito di evitare il 41bis, il carcere duro, ndr), poi quando becco i 700 milioni di euro che si stanno fregando i furbetti del Piano Carceri mi sposta a far niente in via delle Zoccolette (altra sede del ministero di Giustizia, ndr), dopo aver fatto l’assessore alla legalità a Roma, dove ho casa e affetti, mi mandano a Napoli nonostante le garanzie che mi avevano offerto. In tutto questo a Genova sono stato l’unico a impedire che venissero commesse violenze, sono l’unico al mondo che si è opposto alla richiesta di archiviazione nei suoi confronti e nonostante questo non mi fanno un processo e 17 anni dopo mi condannano a morte. Che cosa altro dovrei fare?».