Se piangi hai perso

Storia di Rinda Nigusse: truccatrice 23enne, arrivata in Italia nel 2001. Su un barcone. Oggi, dopo mille peripezie, finalmente è cittadina italiana. Ma non basta, questo, a fermare il razzismo

Rinda Nigusse (foto Attilio Cusani)

«L’altro giorno tornavo a casa in tram. Mi siedo, valigetta del trucco stretta fra le gambe. La fermata dopo, sale una coppia di mezza età. La donna si accomoda accanto a me. L’uomo, con la mano, le fa segno di distanziarsi. Poi, quando scendo, vedo che con un fazzoletto pulisce la panchetta dove ero seduta io». Quasi 65 anni dopo il rifiuto dell’afroamericana Rosa Parks di cedere il posto sull’autobus a un bianco, a Montgomery, Alabama, la 23enne make-up artist Rinda Nigusse – libica di nascita, etiope di sangue e di colori, milanese di residenza e di accento – subisce lo stesso affronto. Sempre su un bus.

«Le cose sono peggiorate da quando Salvini è al potere», prosegue Rinda. «È come se avesse dato il permesso di denigrare qualsiasi cosa sia diversa dall’italiano. Che poi, io italiana lo sono, da un anno. Ne ho impiegati 17 per ottenere la cittadinanza e nel 2018 è arrivata, per me e per mio papà. Alle prossime Europee finalmente voteremo. Non che prima il razzismo non ci fosse. Però la gente si vergognava di più. Le mamme delle mie compagne di scuola, forse pensando di dire cosa gradita, ripetevano: “Sono contenta che mia figlia vada in giro con una come te”».

Com’è una come Rinda? Vivace nel raccontare e nel gesticolare dietro a un cappuccino in un bar di piazza Cinque Giornate, zona centro di Milano dove vive. Ha i lineamenti morbidi e la risata facile che, quando appare, le scopre denti più che bianchissimi in un viso dello stesso colore del cappuccino. Le mamme delle sue amiche si riferivano a questo, alla gradazione dell’incarnato. «In tanti mi dicono: “Sei la nera più bianca che abbiamo mai incontrato”, perché ho la pelle relativamente chiara e parlo italiano. Ma quindi, se non sono abbastanza nera né abbastanza bianca, cosa sono?».

Nell’attesa di sciogliere il dilemma, Rinda passa cinque ore alla settimana a sciogliersi la nuvola di ricci, a colpi di piastra e crema lisciante alla cheratina. «Da bambina mi chiamavano “testa di muffin”. Allora mio papà mi faceva le treccine, ogni volta che veniva a trovarmi la domenica». Per raccontare dove andava a trovarla, Rinda infila le mani nelle tasche dei ricordi. Tasche profonde, che cominciano in un tempo lontano, prima che lei nascesse. E in un Paese straniero, la Libia. «È lì che mio padre incontra mia madre, entrambi etiopi scappati dal conflitto tra Etiopia ed Eritrea. Si piacciono subito, io arrivo subito. Ma la felicità dura poco: quando compio 11 mesi, mia madre viene ammazzata».

Rinda parla concitata, ma senza commozione: «Io non piango mai. Da piccola facevo le gare con me stessa: sono sei mesi che non piango! Otto! Il mio record è un anno. Per mio padre, se qualcuno ti vede in lacrime vuol dire che hai perso, che sei un debole». Lui è forte? «Ora è stanco. Ma, sì, forte lo era. La morte di mia madre gli ha lasciato una ferita: ne parla pochissimo. Lei era stata chiamata per lavorare ai preparativi di un matrimonio. O almeno così pensava: in realtà è finita in un racket di prostituzione. Si è rifiutata e l’hanno soffocata. È stata trovata una settimana dopo».

Una settimana dopo ancora, Rinda finisce nascosta in un’altra casa: «Un uomo solo, nero per di più, con una figlia femmina non era ben visto in un Paese islamico. Così mio papà mi ha dato in affido a una tipica famiglia musulmana: padre, madre e 11 bambini. Per proteggermi, mi ha anche raccontato che quella signora, Hajja Fatima, era la mia vera madre. Volevo crederci, anche quando i fratelli mi dicevano: “Ma non vedi che sei diversa?”. Per questo e tanti altri motivi indicibili, è stato un periodo traumatico». Lo scotto lo paga ancora oggi, con sedute di analisi: «Non mi piace andare in giro da sola dopo le 7 di sera. Mi spavento se sento qualcuno camminare dietro di me. Non prendo Uber, perché non mi fido. Sono cicatrici invisibili di quegli anni terribili».

Anni terminati, bruscamente, con una fuga notturna: «Mio papà capisce che la Libia non è il Paese in cui crescere una figlia. Una sera finge di portarmi fuori per una passeggiata, ma a quella passeggiata non c’è ritorno: “Papà, papà, dove andiamo?”, gli chiedo. “In un posto nuovo”, risponde mentre mi aiuta a salire sul barcone. Con noi, altri 25 bambini, i loro genitori e gli scafisti: uomini vestiti in bianco che parlano una lingua straniera. Navighiamo per cinque giorni, al quarto finisce l’acqua. Ricordo ancora la sete. Come ricordo il momento in cui mio padre decide di raccontarmi la verità su mia madre: “La tua vera mamma è morta”». Anche qui, nessuna lacrima. Piuttosto dell’ironia: «Certo che mio padre, in quanto a tempismo, è proprio negato». O, ancora, della poesia: «A metà viaggio incontriamo un branco di delfini. Ci scortano fino a riva. È stato un tocco di magia in mezzo alla disgrazia».

La magia finisce in fretta. Sbarcano a Siracusa, arrivano in un centro di smistamento dai metodi sbrigativi: uomini da una parte, donne dall’altra, poliziotti dappertutto. Risalgono l’Italia senza bagagli e senza ricordi. A Milano Rinda passa la sua unica notte in strada: «Eravamo in Porta Venezia, sotto gli archi che guardano il Parco Indro Montanelli. Non ci passo mai volentieri». Era il 2001: insieme a Rinda sarebbero approdati sulle nostre coste 23 mila immigrati. Più o meno la stessa quantità sbarcata nel 2018, secondo il dipartimento di Pubblica Sicurezza. In mezzo, anni caldi di primavere arabe e repressioni, che hanno fatto impennare gli arrivi fino a 120 mila all’anno.

Come per tanti di questi cacciatori di speranza, anche per Rinda l’Italia doveva essere la tappa provvisoria di un sogno verso il nord. Invece presto diventa permanente: mentre il padre trova impiego come operatore ecologico in metropolitana, Rinda viene mandata in una comunità in via Nino Bixio: «Si chiamava Fanciullezza abbandonata: che allegria!». Lì, tra suore cocciute e preghiere forzate, rimarrà dai 6 ai 10 anni. «Vedevo mio padre solo la domenica. Ma non riuscivo a parlarci: le suore mi avevano obbligato a disimparare l’arabo».

A scuola andava meglio? «Le bambine non volevano giocare con me perché ero nera. Io cercavo di comprare il loro amore: ogni mattina portavo in classe un vassoio di focaccine. Risultati scarsini, in amicizia e in pagella. Alle suore non fregava granché che studiassimo, così non mi è mai venuta voglia di impegnarmi. Strano, vero? Un altro, al posto mio, si sarebbe fatto in quattro per dimostrare il proprio valore. Io invece ho lavorato duramente per diventare una bella persona. Ho sempre pensato: se vedono che siamo buoni capiscono che non c’è bisogno di tutto questo odio». La tattica non sempre ha funzionato visto che si è sentita dire dal preside di un liceo: «In fin dei conti, sei una negra e devi accettarlo», e da un professore di inglese: «Se non capisci, perché non te ne torni nelle piantagioni di cotone?». «Questa è stata la frase che più ha fatto infuriare Renata: voleva denunciarlo, chiamare il Corriere della Sera. L’ho fermata: a 15 anni desideri solo scomparire».

La battagliera Renata è la mamma affidataria di Rinda nonché «la cosa più bella che potesse capitare». Le è capitata al suo decimo compleanno e non se n’è più andata. Anzi, è piuttosto presente. Appena la nomina, le squilla lo smartphone: sullo schermo compare la chiamata di un utente salvato come «LA VITA», tutto in maiuscolo. Quando riaggancia, Rinda spiega: «Era Renata, sta cercando di adottarmi. Sono stata in affido fino ai 18 anni. Ora per legge siamo coinquiline». Interrogata sul perché non la chiami «mamma», sorride dolcemente: «Non posso: di mamme ne ho avute troppe, ne ho perse troppe». Dopo la madre biologica e quella fittizia, Hajja Fatima, c’è stata Carmen, il primo tentativo di affido: «Per sei mesi, tutto liscio: ero stata a casa sua a dormire, mi aveva comprato un pigiama con una paperella, le volevo bene. Poi mi ha scritto una lettera che conservo ancora: “La mamma ti adora, ma non può prenderti con sé”». Quando, anni dopo, è arrivata Renata, Rinda era comprensibilmente scettica: «Ero convinta che chiunque mi avesse presa, presto o tardi, mi avrebbe restituita. Renata tra l’altro è partita con il piede sbagliato: “Ciao Renda!”, mi ha detto. “Mi chiamo Rinda”, ho grugnito. Dopodiché, le ho fatto passare l’inferno: le dicevo continuamente che la odiavo, la scacciavo. Per quattro anni. Poi ho capito che era lì per restare ed è iniziato il periodo più bello della mia vita: c’è una tale serenità tra me, lei e mio padre che non mi sono mai neanche permessa di sognare. Oggi Renata è la mia migliore amica, la persona a cui dico tutto. Anche se lei fa ancora fatica a confessarmi alcune cose». Per esempio? «L’altro giorno eravamo in libreria. Una signora ci guarda, bofonchia una frase che non riesco a sentire. Dall’espressione di Renata capisco che non dev’essere una carineria. Le chiedo spiegazioni, finge disinteresse. Mi impunto, niente. Insisto dieci volte prima che ceda. La signora ha detto: “Ora fanno entrare anche i negri in libreria”. Mi sono venute le lacrime agli occhi. Ma mica ho pianto. Neanche quella volta».