Viola, albanese: «I figli dei migranti saranno i vostri medici e avvocati»

A metà degli Anni 90, insieme ai due figli, ha raggiunto il marito in Piemonte. Ha messo nel cassetto la sua laurea: è ripartita da zero. E ce l’ha fatta
Viola albanese «I figli dei migranti saranno i vostri medici e avvocati»

Quando sei istruito e ambizioso, ti liberi più in fretta dell'etichetta di «straniero». Viola Mece Shamku è albanese, è moglie e mamma di due figli in carriera, lavora come insegnante e mediatrice culturale. Ha tanti amici. Alcuni li ha messi in discussione, negli ultimi anni, perché c’è una cosa che non ha intenzione di tollerare: il razzismo. Nella città in cui vive, Saluzzo, in provincia di Cuneo, Piemonte, ogni estate arrivano tanti migranti africani, per raccogliere la frutta coltivata nelle campagne del territorio: se ne sentono di tutti i colori su questi giovani che si spostano in bicicletta da un campo all’altro. Lei non ha provato sulla sua pelle quel tipo di razzismo, ma una forma più sottile di pregiudizio. «Parla bene l’italiano, lei», «Lei è come una dei nostri», come se per essere ok fosse necessario esserlo.

Viola si è laureata in Albania in biologia e chimica: ha insegnato in un liceo, poi è stata assunta dal ministero dell’Istruzione nei «gruppi di modernizzazione», che dovevano occuparsi di svecchiare i testi scolastici. Nei primi anni 90 è diventata mamma e ha mantenuto il suo posto di lavoro. Il marito era in polizia, al ministero dell’Interno. Avevano due buoni impieghi, un appartamento, un’auto. Ma quelli furono gli anni delle profonde trasformazioni politiche, in Albania come in tutto l’Est, quelli in cui cominciò l’esodo di persone che non vedevano l’ora di lasciare il Paese, e lo fecero anche con i barconi, quelli che sono rimasti nell’immaginario e nella storia.

«Per età e per appartenenza sociale sentivamo di essere quella parte della popolazione più capace di partecipare alle trasformazioni, pensavamo di essere la forza più attiva», ci spiega. «Ma così non è stato. Venivamo da una cultura storicamente non democratica, e in realtà non sapevamo niente di democrazia: ce ne siamo accorti solo dopo. Inizialmente non volevamo partire: volevamo migliorare il Paese. Ma lavoravo nella scuola, e intorno alla metà degli anni 90 ho capito che i pilastri come l’istruzione, le istituzioni e la sanità, garanzie che il popolo aveva, erano state minate, nel nome di un presunto anticomunismo».

Le prospettive diventavano grigie per Viola e il marito, che non avrebbero mai condiviso quelle politiche e non volevano che i loro figli crescessero in quel clima. Hanno deciso di provare a cambiare, con tutte le difficoltà del caso. Prima, nel 95, partì il marito, che rimase da solo in Italia per un anno, con un visto. Poi arrivò Viola, con i bambini: in aereo, niente di rocambolesco, ma senza un permesso di soggiorno. Dopo la scadenza del visto si diventava clandestini, ma non c’era una vera e propria legge sulle immigrazioni e si poteva usufruire delle sanatorie, come hanno fatto loro.

Hanno cominciato subito a cercare di ritagliarsi uno spazio, conquistare un posto di lavoro, un ruolo. «Mio marito ha iniziato come manovale nell’edilizia, poi, dopo una serie di prove, è entrato in una grande azienda come meccanico. Sapeva bene sia l’italiano che il francese. Io invece ero preparata con l’inglese, ma non conoscevo una parola di italiano. Ho cominciato a lavorare in un ristorante come lavapiatti: ero contenta, siamo stati aiutati tanto». Lei, in quel ristorante, ha cercato di imparare prima possibile la lingua italiana. Ce l’ha fatta, e ha cominciato a lavorare come volontaria nelle classi per gli immigrati che volevano imparare l’italiano. Un passo dopo l’altro, un corso dopo l’altro, un esame dopo l’altro, è diventata una mediatrice culturale e una docente.

«Allora c’era una grande volontà di integrare gli stranieri: ci si occupava dell’accesso alla sanità delle famiglie, della scuola e delle vaccinazioni per i bambini. A mano a mano, i finanziamenti per queste attività si sono ridotti: la gestione dell’immigrazione è peggiorata con la crisi, e c’è chi ne ha approfittato». I finanziamenti di cui parla Viola non hanno niente a che vedere con l'assistenzialismo: dovrebbero servire per aiutare gli immigrati ad orientarsi. «Chi arriva in Italia è giovane, sano e forte: ha bisogno di politiche di integrazione, non di altro». Gli Shamku ce l’hanno fatta da soli, scegliendo di riempirsi la vita con il lavoro, la partecipazione politica, le frequentazioni culturali, le mostre e i concerti. «Queste cose ti agganciano alla società. Il razzismo te lo tiri addosso, se pensi: “Mi fanno del male perché sono albanese”». Poi è anche capitato che su un giornale locale li chiamassero «gli albanesi buoni», Viola e la sua famiglia, offendendoli a morte. Lei, con garbo, aveva risposto che quell’espressione davvero era inopportuna.

Con i razzisti, Viola litiga: «Vorrei dirgli che è nel loro interesse rendersi conto di essere nel torto: la società evolve e i figli degli stranieri sono già oggi medici, infermieri e avvocati dei razzisti. Ci avevano inculcato il patriottismo, ma a me quel concetto non dice niente di buono. Non mi sembra di avere valori diversi da quelli delle persone che stimo, che siano albanesi, piemontesi, siciliane, africane».