Katy Perry: «Perché il mio cuore è spezzato»

Un decennio di trionfi, poi un album di scarso successo. La crisi e la depressione. Durante una pausa dai suoi pirotecnici concerti, la cantante racconta perché «mi sentivo a pezzi». E come ha fatto a tornare a essere felice ed eliminare «i virus» della sua vita
Katy Perry «Perch il mio cuore è spezzato»

L’articolo è tratto dal numero 35 di Vanity Fair in edicola fino al 5 settembre 2018.

Sono le 15 in punto, e sto aspettando all’angolo fra Boulevard Saint-Germain e Rue Saint-Benoît, nel sesto arrondissement di Parigi. Katy Perry, popstar internazionale e mia amica meno puntuale in assoluto, è in ritardo di mezz’ora al nostro appuntamento per pranzo al Café de Flore, e il pensiero che stasera potrei perdere il volo di ritorno per New York comincia ad agitarmi. Sapevo che sarebbe successo. L’anno scorso, quando le ho fatto da accompagnatore al party di Vanity Fair America per gli Oscar, ho mentito dicendole che dovevamo essere lì un’ora prima dell’orario effettivo, con il risultato che siamo arrivati in ritardo solo di un quarto d’ora.

Alle 15.10 tiro fuori il telefono: «SIGNORINA, IO AVREI UN VOLO DA PRENDERE», le scrivo. «Ti ricordi quando abbiamo deciso di vederci alle due e mezza e io ti ho detto che avrei tardato?», mi risponde. «Io non mento». E aveva ragione, accidenti a lei. In circostanze normali, sono ben felice di aspettarla. Ma adesso lei percepisce il mio panico. «Hai molto bagaglio, principessa?», mi messaggia. «Intendo bagaglio letterale, non emotivo». «Io, quando devo volare, il bagaglio emotivo ce l’ho pesantissimo», rispondo. «Subito un tweet!», ribatte Katy, che tra parentesi è anche la persona più seguita al mondo su Twitter. Non è riuscita a convincermi che non perderò il volo, perciò le annuncio: «L’intervista la comincio adesso, via messaggi!». «Io pensavo fosse già cominciata!».

Sorrido del messaggio, e alzando gli occhi dall’iPhone vedo una monovolume sfrecciare lungo Boulevard Saint-Germain, inseguita da alcuni scooter. La monovolume frena rumorosamente davanti ai miei piedi, ed ecco scendere Katy, in tuta di raso con le spalline sottili e capelli corti tinti di lilla. I paparazzi si fiondano giù dagli scooter per inseguirla dentro il caffè, ma noi ci siamo già accomodati a un tavolo in disparte. Come due veri turisti americani, ordiniamo zuppa di cipolle alla francese e croque madame.

Lo scorso aprile Katy è andata a Roma per partecipare a un’udienza con il capo della Chiesa cattolica, ed è questa la prima cosa di cui voglio parlare. «È iniziato tutto mentre ero in Australia con il tour e sono andata a messa con mia madre», spiega Katy. «Erano quarant’anni che non cantava in chiesa, e vedendola mi è venuto da piangere. È bellissimo ritrovare se stessi in un luogo fatto esclusivamente per entrare in contatto con il divino».

Come canta nella sua hit del 2010 con Snoop Dogg, Katy è una vera California Girl: nata nella pittoresca Santa Barbara, è stata cresciuta da Mary e Keith, due pastori pentecostali (anche se la madre è di famiglia cattolica). Dopo aver cominciato a esibirsi da bambina, a 15 anni Katy se ne andò di casa per dedicarsi alla carriera musicale. «Avevo una determinazione d’acciaio ed ero lanciatissima già a nove anni», ricorda. Non sorprende che la sua prima mega-hit del 2008, I Kissed a Girl, a casa non abbia ottenuto altrettanto successo. «Mia madre è tutta la vita che prega per me, nella speranza che torni a Dio. Io non l’ho mai abbandonato, sono semplicemente stata un po’ più laica, più materialista e concentrata sulla carriera. Ma ora che ho superato i trenta sono più interessata alla spiritualità».

Katy è una fervida sostenitrice della David Lynch Foundation, che promuove la diffusione della meditazione trascendentale. Bob Roth, l’amministratore delegato della fondazione, l’ha invitata a raccontare la sua esperienza durante una conferenza dedicata alla salute organizzata a Roma, fra gli altri, dal Pontificio consiglio della cultura. Lei ha subito accettato. «Sono una grandissima fan di papa Francesco. Unisce compassione, umiltà, rigore e intransigenza. È un ribelle, un ribelle per conto di Gesù».

Per incontrare il papa si è fatta accompagnare da due persone: sua madre e Orlando Bloom. Katy è gelosa della sua vita privata – forse per colpa della dolorosa fine del suo matrimonio con Russell Brand nel 2012, immortalata per intero dalle telecamere di Part of Me, il documentario che seguiva il suo tour California Dreams – per cui mi addentro in territorio Orlando con estrema prudenza. «Nominarlo non è un problema», dice lei un po’ in apprensione. Il problema è questo: quando c’è di mezzo la vita sentimentale delle persone famose, qualsiasi altro discorso viene eclissato. Se Katy Perry, una delle più grandi popstar del pianeta, va a incontrare il papa, le foto finiranno su Internet, e la conseguente copertura stampa non avrà nulla a che vedere con la tolleranza o l’illuminazione spirituale. «Non voglio che il titolo diventi quello, perché toglie peso allo scopo principale», osserva lei. «In più è una cosa davvero misogina. È ovvio che la mia relazione mi rende felicissima, ma è solo una parte di me, e non voglio che oscuri tutte le altre». (Comunque, per la cronaca, tra lei e Orlando tutto bene, grazie).

LEGGI ANCHE

Orlando Bloom, presto un figlio da Katy Perry?

Il rumore che accompagna l’esistenza di un personaggio pubblico non smetterà mai di crearle difficoltà. «Quello ci sarà sempre», dice stringendo le spalle. Lo scorso gennaio Katy ha frequentato un seminario di una settimana all’Hoffman Institute, un centro californiano specializzato in sviluppo personale, che stando a quanto si legge sul sito «aiuta i partecipanti a identificare comportamenti, stati d’animo e mentalità negativi sviluppati inconsciamente a partire dall’infanzia». Spiega lei: «Erano anni che vedevo i miei amici andarci e tornare completamente ringiovaniti, per cui volevo farlo anch’io. Ero pronta a liberarmi di tutto ciò che mi impediva di essere definitivamente me stessa. Ho avuto qualche episodio isolato di depressione, e l’anno scorso mi hanno spezzato il cuore: senza rendermene conto, avevo riposto un bisogno di conferme enorme sulla reazione del pubblico, e il pubblico non ha reagito come mi aspettavo. Quello mi ha spezzato il cuore».

Dopo un decennio passato a inanellare album di successo, nel 2017 la sua ascesa ha subito una battuta d’arresto con l’album Witness. «La musica è il mio primo amore, e secondo me l’universo ha voluto dirmi: “Ok, parli tanto di amore per se stessi e autenticità, ma adesso noi ti mettiamo di nuovo alla prova togliendoti qualsiasi rassicurante conferma. Così vediamo se è vero che ti ami così tanto”. Il fatto di ritrovarmi così a pezzi, e quindi aprirmi a una forza più grande, rientrando in contatto con il divino, mi ha dato un senso di pienezza che non avevo mai provato».

Un po’ come la procedura per quando l’iPhone continua a bloccarsi, quella settimana di seminario all’Hoffman Institute le ha riavviato il sistema. «Sono convinta che tutti, come i computer, a volte ci prendiamo dei virus attraverso i nostri genitori o l’educazione che abbiamo ricevuto da piccoli. Virus che poi cominciano ad agire sui nostri comportamenti, sui nostri schemi da adulti, sui rapporti». Ha perfino cominciato a regalare buoni per l’Hoffman agli amici che vede in difficoltà. «Io lo raccomando a tutti. Moltissime persone cercano il benessere nell’affetto del pubblico, nelle sostanze, in una fuga continua dalla realtà, negandola e nascondendosi. Per molto tempo l’ho fatto anch’io».

La scoperta più grande che le ha regalato il seminario è che fra creatività e sofferenza non esiste un legame, e che il mito dell’artista tormentato è una menzogna. «L’altro giorno mi hanno chiesto: “Ma non hai paura che fare troppa terapia ti rovini il processo creativo?”. Ho risposto: “La più grande bugia a cui abbiamo mai abboccato è che gli artisti, per creare, debbano costantemente soffrire”».

Ieri sera sono andato al suo concerto qui a Parigi. Katy sa come si monta uno spettacolo: nel Witness Tour ci sono cannoni spara-coriandoli, fuochi d’artificio, fenicotteri giganteschi, acrobati volanti, un’enorme bocca che se la mangia a metà canzone e un pianeta luminoso seduta sul quale Katy sorvola i devoti e urlanti spettatori come una cowgirl intergalattica.

È una performer nata, Katy. «È un’arte, quella dei concerti, di cui adoro ogni aspetto. Mi piace il sogno, la fantasia, il fatto di inventarsi un mondo. Magari sono anni che penso: quanto sarebbe divertente volare sopra il pubblico su una nuvola di zucchero filato! E il mio team mi dice: “Ok, facciamo due conti e vediamo se è possibile”».

L’aspetto più difficile, per Katy, è la resistenza fisica: sono due ore di spettacolo, e lei compare in ogni numero. Quella di ieri era la settantaseiesima data, e da qui alla fine il tour ne conterà quasi 115.Ieri sera ho potuto osservarla durante uno dei suoi «cambi veloci», che sembrano pit stop di Formula 1.Un assistente la fa spostare di corsa sotto il gigantesco palco e appoggiare le mani su una sbarra di metallo appesa al soffitto. Davanti a Katy c’è un orologio con un conto alla rovescia di centoventi secondi, e mentre lei penzola come un neonato nudo un team di cinque persone le sfila un costume e gliene mette un altro, cambia le scarpe, ritocca il trucco, aggiusta i capelli e le passa un Gatorade. Ho pubblicato il video di uno di questi cambi d’abito su Instagram, nel quale Katy si gira verso l’obbiettivo dicendo: «Ecco cosa fanno le popstar quando pensate che se ne stiano a fumare canne dietro le quinte aspettando di rientrare. Ma non è così!». Nel video le chiudono la zip di un body di pelle nera, e mentre la riaccompagnano sotto il palco esclama: «Lei i soldi se li guadagna!». Il video è diventato virale.

La cosa più interessante del suo documentario è vedere come Katy si raccoglie in se stessa prima di andare in scena. «A volte non mi sento al cento per cento, magari ho un brutto jet lag, oppure ci sono questioni personali che devo gestire fino a un attimo prima di salire sul palco». In un modo o nell’altro, però, quando arriva il momento ci riesce sempre. «Sono svuotata. Alla fine di ogni tour, per citare una mia canzone (Plastic Bag, ndr), sono un sacchetto di plastica».

Abbiamo finito di pranzare, e guardando l’orologio Katy mi dice che è tardi e deve andare. Paga il conto (ci ho provato!), dopodiché la accompagno alla macchina davanti a una falange di paparazzi e prendo un taxi per l’aeroporto. Arrivato ai controlli di sicurezza, scatto una foto del pass Vip di ieri. A malincuore la spedisco a Katy, dicendo che sono arrivato in aeroporto con largo anticipo. «Ho già il titolo», mi risponde. «ERA IN RITARDO MA NE È VALSA LA PENA». E ha di nuovo ragione, accidenti a lei.

[traduzione di Matteo Colombo]

LEGGI ANCHE

Katy Perry e Orlando Bloom: vacanze romane (e vaticane)

LEGGI ANCHE

Katy Perry e Orlando Bloom sono tornati insieme?