Il killer crudele e misogino di Von Trier indigna Cannes

Se davvero il Festival doveva riammettere il regista (escluso dopo essersi definito «nazista») alla sua tavola borghese, perbene e politicamente corretta, non era certo questo il film giusto. D'altronde, questo è il suo stile. Perché scandalizzarsi tanto?
Il killer crudele e misogino di Von Trier indigna Cannes

Spettatori che lasciano la sala, tweet che definiscono il film «vomitevole, sadico, intollerabile». Insomma, Lars Von Trier colpisce ancora. Buttato fuori dal Festival nel 2011 perché si era definito «nazista» durante una conferenza stampa, è stato riammesso quest’anno con The House that Jack Built, storia di un serial killer che si fa chiamare Mister Sophistication. Succede di tutto: donne e uomini sgozzati, bambini ammazzati a sangue freddo, torture su animali, mutilazioni e chi più ne ha più ne metta. Anche se non lo cita direttamente, Von Trier si è chiaramente ispirato a L*’assassinio come una delle belle arti*, il saggio di Thomas De Quincey di metà Ottocento perché Mister Sophistication (interpretato da Matt Dillon, di grandissima bravura, disturbante almeno quanto Christian Bale in American Psycho) è convinto di essere una specie di Michelangelo dei serial killer. Il film è costruito con una voce fuori campo (Bruno Ganz, lo psichiatra) che interroga l’assassino per indagarne le «ragioni».

Ma non siamo dalle parti di un thriller/horror commerciale, all’americana. Siamo nella testa e nello sguardo di un regista che ha fatto della provocazione il suo canone. In parallelo alle imprese sanguinarie del killer, Von Trier sta metaforicamente raccontando (e in un certo senso giustificando) le proprie, con citazioni dei suoi film precedenti, con immagini tratte dalla storia dell’arte e, a intervallare il tutto, il pianista Glenn Gould, mito che incarna il frusto concetto «genio e sregolatezza». Ci sono addirittura chiari riferimenti anche alla vicenda che fece, appunto, escludere Von Trier da Cannes. Non mancano, infatti, alcune immagini di Hitler, Mussolini, Stalin, i peggiori dittatori del Novecento, definiti «icone». E non mancano nemmeno flash davvero inguardabili di materiale di repertorio dai campi di concentramento: vera pornografia della morte.

Come ciliegina sulla torta ci sono un paio di scambi con lo psichiatra in cui il killer insulta le donne: «Se le ammazzo e le torturo è perché sono delle stronze, inutile che poi facciano le vittime». Insomma, un’apologia del femminicidio, proprio l’ideale nell’anno del #metoo.Se davvero il Festival di Cannes doveva riammettere Lars Von Trier alla sua tavola borghese, perbene e politicamente corretta, non era certo questo il film giusto. D’altronde, Von Trier è così: si aspettavano forse una bella operina edificante? E quindi?

Per quanto il film sia in più punti disgustoso (quando il killer mostra il portamonete che ha realizzato con il seno mutilato di una delle sue vittime, ho chiuso gli occhi), il cinema di Von Trier è potente. Ogni volta, costringe lo spettatore a ragionare su quella cosa difficilissima che è la separazione tra forma e contenuto, tra valori morali ed estetica e, no, una risposta non ce l’ha lui, non ce l’ha il festival e, abbiate pazienza, non ce l’ho nemmeno io.