Tilda Swinton: «Io e Guadagnino, posseduti da Suspiria»

Un «battito pulsante», un «sogno condiviso» per anni. E ora l’attrice inglese e il regista italiano lo hanno realizzato

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 35 di Vanity Fair in edicola dal 29 agosto al 5 settembre

Ho sentito parlare per la prima volta del remake di Suspiria dieci anni fa. Ed ero già in ritardo. Accadde sul set di Io sono l’amore, a Milano, a Villa Necchi. Saranno stati i primi di luglio e faceva un caldo vile. Le zanzare si intrufolavano nei mulinelli di neve finta per la scena che si girava, ambientata la sera di Natale (il cinema non è mai quello che sembra). Gli attori indossavano abiti invernali con una capacità di resistenza alla canicola che mi rimase impressa. Chiesi a Luca Guadagnino che cosa avrebbe fatto dopo quel film e, appunto, mi disse di Suspiria. «Con lei», aggiunse indicando Tilda Swinton, che in quel momento veniva fotografata in tutto il suo splendore e carisma, perfettamente fusa con il genius loci della villa in cui è ambientato Io sono l’amore. Non sapevo che il progetto del remake di Suspiria (il più celebre titolo di Dario Argento all’estero, più di Profondo rosso) girava in testa a Guadagnino già da un decennio.

Il percorso, insomma, è stato lungo, altri film sono arrivati prima, sia per il regista sia per Tilda, uno di questi lo hanno fatto insieme (A Bigger Splash), ma adesso siamo al gran momento: anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, in concorso. E prima ancora, la cover story di Vanity Fair con tutto il cast femminile fotografato da Jason Bell in esclusiva.** Suspiria by Guadagnino è ambientato nel 1977**, l’anno in cui uscì il film di Argento, a Berlino (David Bowie! Terrorismo! L’inizio della fine dell’era della Berlino divisa!) anziché a Friburgo, in una scuola di danza contemporanea anziché in una di danza classica. L’essenza del film resta anche se, più che un vero remake, questo è una riflessione in forma di incubo su un’epoca, sulla figura femminile (santa o puttana, madre o strega? O tutto insieme, nella furibonda distruzione di cliché e dicotomie del femminismo di allora), sul senso stesso di un genere, l’horror, che sempre in quegli anni, e anche grazie proprio a Dario Argento, era entrato in una nuova fase della sua lunga storia, integrandosi ai miti dell’occulto, e soprattutto rinnovandosi nell’estetica. Con Suspiria, Tilda Swinton torna a Venezia dove è già stata in molte delle sue incarnazioni, a presentare film come Orlando di Sally Potter, Michael Clayton con George Clooney che le fece poi vincere l’Oscar, Burn After Reading dei fratelli Coen, oltre a tutte le collaborazioni con il regista italiano.

Perché Suspiria?«Quando ho conosciuto Luca, nel ’96, avevo già visto il film di Argento, ai tempi dell’università, all’Arts Cinema di Cambridge. Ma non avevo mai incontrato nessuno, prima, con cui condividere il mio entusiasmo. Luca è sempre stato come posseduto dall’idea di Suspiria: in tutti i nostri progetti e sogni a lungo termine, è sempre stato lì, sotto a ogni cosa, un battito pulsante. Sono molto orgogliosa del fatto che siamo arrivati in fondo e che Luca abbia condotto la nave in porto sana e salva». L’horror, o si ama o si odia. Ho letto che lei, da ragazza, aveva appeso in camera un poster di Christopher Lee in Dracula, quindi immagino sia una fan. Il suo horror preferito, Suspiria a parte?«Suspense di Jack Clayton (ispirato al Giro di vite di Henry James, ndr) è un capolavoro. Ogni tanto lo rivedo e ogni volta mi sembra che cambi forma, si adatta allo spettatore con il passare del tempo». Una delle fonti d’ispirazione per il suo personaggio è Pina Bausch. L’ha mai vista in scena?«Purtroppo non mi è mai capitato e non l’ho mai nemmeno incontrata, anche se avevamo amici in comune. Ma ho visto la sua compagnia danzare la prima volta negli anni Ottanta e l’ho sempre ammirata moltissimo. Il mese scorso li ho visti ancora in uno spettacolo a Parigi, il sublime Nefés, al Théâtre de la Ville. Il loro lavoro è sempre fresco e moderno. Tuttavia, il mio personaggio nel film si ispira soprattutto alla coreografa Mary Wigman, altra figura fondamentale, pioniera della cosiddetta danza libera “esistenziale” in Germania, prima della Seconda guerra mondiale. La sua creazione più famosa è Hexentanz (Danza delle streghe, ndr) e io faccio molto riferimento alla sua gestualità. Non solo. Wigman dovette accettare compromessi per far sopravvivere la sua compagnia durante il nazismo, c’è qualcosa di fragile e contraddittorio nella sua storia e anche questo mi è servito a creare il personaggio di Madame Blanc». Lei era una teenager nel 1977, l’anno in cui è ambientato il film. È anche l’anno, per dire, in cui uscì Guerre stellari. Che cosa ricorda di quel periodo?«Avevo 16 anni, ero in un collegio nella profonda campagna inglese dove venivamo rigorosamente, e direi colpevolmente, tenuti all’oscuro della cultura popolare. Al sabato sera si vedevano film inglesi come Whisky a volontà o Passaporto per Pimlico, piccoli classici a modo loro ma molto staccati dalla realtà dell’epoca in cui vivevamo. Per fortuna, d’altra parte, sono stata abbastanza fortunata da avere una certa esperienza dell’atmosfera che si respirava in quegli anni in Germania. Mio padre, militare, fu di stanza in Germania proprio negli anni Settanta. Ricordo benissimo i tragici fatti alle Olimpiadi di Monaco visti in televisione durante le vacanze estive del 1972, ricordo le facce di Ulrike Meinhof e Andreas Baader appena arrestati, mostrate ovunque, come fossero rockstar, ricordo le dettagliate perquisizioni dell’automobile di mio padre e, in generale, una sensazione di precarietà forse fisiologica a 16 anni ma che, per me, aveva qualcosa di ancora più forte». Può descrivermi in tre istantanee come si è evoluta la sua collaborazione e la sua amicizia con Luca attraverso gli anni e i film insieme?«Il nostro primo incontro, a Roma, nel 1996.Quella volta che, con il nostro amico e coproduttore Carlo Antonelli siamo stati vestiti da mummie con rotoli di carta igienica da un gruppo di bambini schiamazzanti per una festa di Halloween in Scozia. La nostra ultima vacanza insieme in Svizzera, nel maggio scorso». Lei viene spesso definita un’attrice «non convenzionale». La infastidisce o la lusinga?«È buffo che una simile definizione possa infastidire o lusingare. Le convenzioni sono certamente nell’occhio di chi guarda». E per lei che cosa è «non convenzionale»?«Mi interessano e sono molto attaccata alle cosiddette convenzioni della cortesia, del rispetto reciproco, della gentilezza. Le difendo sempre, penso siano tesori inestimabili che dobbiamo proteggere con cura. Se la specie umana le abbandona, può solo decadere». Ha detto che uno dei suoi libri preferiti è Grandi speranze di Charles Dickens. Ha appena girato un film tratto da Dickens, di che cosa si tratta?«È il David Copperfield diretto da Armando Iannucci. Interpreto uno dei personaggi che più amo della storia della letteratura: Betsey Trotwood, la meravigliosa, eccentrica, zia di David». Lei è quel che si dice una fashion icon. Da ragazza come si vestiva?«A scuola eravamo obbligati a indossare la divisa: non mi dava particolarmente fastidio perché era linda e formale, il che ai miei occhi, a dieci anni, significava un vestire da adulti. Più avanti, da teenager, cominciai a modificarla: colletto in su, colletto storto, colletto infilato sotto, diversi modi di annodarsi la cravatta, più magliette arrotolate e indossate in vita, sui fianchi, sulle spalle, insomma tutte infinite variazioni sulla stessa camicia bianca, gonna blu a pieghe e cravatta blu e argento. Non ricordo che fosse un tentativo di sembrare diversa, era l’opposto. Sinceramente mi piaceva essere vestita come gli altri 120 del gruppo, ma le mie varianti erano una diversione, un modo di dare una forma interessante alle cose di tutti i giorni». Lei è sempre elegantissima. Pensa di avere mai commesso un passo falso nell’abbigliamento?«Non so che cosa intenda per passo falso. Il passo falso di una persona può essere il massimo dello chic per un’altra! Non avendo mai indossato una divisa fascista, non credo di avere mai commesso nulla di condannabile». Che cosa ha imparato dalla sua collaborazione con tanti stilisti importanti?«Che vestirsi nel modo adatto all’evento e in sintonia con il tuo ruolo nel medesimo è una forma d’arte». Lei è andata all’università con l’idea di diventare scrittrice, poetessa. Che cosa l’ha spinta verso la recitazione?«Ho smesso di scrivere all’improvviso, poco dopo essere arrivata a Cambridge. In breve ho fatto amicizia con gente che stava mettendo in scena degli spettacoli teatrali e ho cominciato a legarmi a loro. Diciamo che ho iniziato a recitare per stare in buona compagnia e quest’abitudine mi è rimasta per più di trent’anni». Scrive ancora? Tiene un diario?«Niente diario, ma scrivo. Ho ricominciato a farlo una quindicina d’anni fa e non ho più smesso». In quanto coproduttore di Okja, lei ha lavorato con Netflix. Come la pensa sul modo in cui le piattaforme digitali stanno cambiando l’industria del cinema?«È difficile sapere come andrà a finire, ma certo lo studio system tradizionale è in piena trasformazione. Quando un regista come Bong Joon-ho riesce a ottenere il denaro necessario per Okja solo da Netflix significa che è arrivato il momento per il cinema di ripensare al suo ruolo. Ma il cinema è una forza robusta e flessibile che, dalla sua nascita, ha superato l’avvento del sonoro e quello della televisione: entrambi erano stati visti come minacce al suo potere. Il mondo è grande e si evolve. C’è posto per tutto, sono fiduciosa. E credo con tutto il cuore che, per quanto digital streaming ci possa essere ai nostri polsi e ginocchia e in fondo ai nostri letti e ovunque, non arriverà mai il momento in cui smetteremo di desiderare di stare seduti al buio in mezzo a un mucchio di sconosciuti per venerare un secolo di film proiettati sul grande schermo. I film sono per sempre». Lei ha sempre detto di considerarsi una «turista» a Hollywood. Se dovesse descriverla a un vero turista, che cosa direbbe?«Che è un ottimo posto per passarci le vacanze. E che è pieno di tesori!». Quando è stata l’ultima volta che si è fatta un complimento da sola?«Pochi giorni fa, dopo aver completato una difficile manovra in auto, a marcia indietro in salita. Anche i cani che erano con me sono rimasti parecchio colpiti dalla mia bravura». Quanti cani ha?«Adesso ne ho cinque. Rosie, la nonna, la più saggia e la più sofferente di tutti, che canta una specie di canzone quando è contenta. Dora, sua sorella che dorme tra le mie ginocchia ed è un fulmine nel catturare la palla in spiaggia prima dei suoi parenti. I figli di Rosie, ovvero Louis, il mio cavalier servente, sempre al mio fianco, silenzioso come un cervo, e sua sorella Dot, cane da commedia, che sostiene con me vere e proprie conversazioni con frasi compiute. Per finire, Snow Bear detto anche Snaubert, come lo chiama Sandro (Kopp, il compagno di Tilda, ndr), che è figlio di Dot, un cucciolo che sta sempre seduto sul sofà, dietro la mia testa, come un pappagallo». Oltre alla recitazione, in che cosa si sente particolarmente brava?«Trovo le cose che non si trovano, so rammendare e aggiustare un po’ tutto. E fare straordinarie manovre in auto, ovvio». Quando è stata l’ultima volta che ha pianto?«Una settimana fa, di gioia, quando mia figlia è tornata dopo otto mesi di volontariato, come insegnante in Namibia».