Nathan Englander: «La pace in Israele? È possibile»

Nel nuovo romanzo, lo scrittore americano racconta i due lati del conflitto arabo-israeliano, e lo fa attraverso i sogni di un Generale in coma (vi ricorda qualcuno?) e le disavventure tragicomiche di una spia maldestra. Che gli assomiglia moltissimo

Parte come un thriller politico, passa alla storia di Israele (con un accento di realismo magico), poi a una storia d’amore e a un’allegoria. L'ultimo romanzo del 48enne Nathan Englander, Una cena al centro della Terra (Einaudi, pagg. 237, 19,50 euro; tradotto magnificamente da Silvia Pareschi), è sempre qualcosa che non vi aspettate. I poli sono due: c'è Z, poi Prigioniero Z, una spia del Mossad rinchusa da anni in una prigione segreta ne deserto del Negev, e c'è il Generale, che è Ariel Sharon e al tempo stesso non lo è, costretto in un letto di ospedale dal coma, che lo lascia però libero di sognare la sua vita passata.

Il libro di Englander, arrivato cinque anni dopo la bella raccolta di racconti Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank e dopo quasi un ventennio di ricerche sulla storia del conflitto arabo-israeliano da parte dello scrittore americano che, da ragazzo, si era trasferito a vivere a Gerusalemme. Parte con la scena di una donna (si scoprirà solo alla fine la sua identità) che, sul lato israeliano del confine di Gaza, pensa al suo amato e dice a se stessa, indomita: «Tu non accetterai il tuo cuore spezzato». Poi la storia prosegue con salti nel tempo e nei luoghi, da Berlino, dove seguiamo le tragicomiche vicende della spia Z, un misto tra una parodia di James Bond e la tenera ironia tipica dell'autore di Long Island, a Capri, dove assisteremo a un improbabile arresto, fino al finale, sorprendente e romantico come un film di Richard Linklater.

Incontro Nathan Englander a Torino, una tappa del suo tour promozionale: poco prima aveva fatto qualche chiacchiera con l'amica Nicole Krauss, un pezzo di casa per lui qui in Italia.

Lei, ha detto una volta, cerca sempre di «scrivere qualcosa che è impossibile da scrivere». Qui lo fa di nuovo: racconta i sogni di un uomo in coma. E non un uomo qualsiasi, ma il Generale, dentro il quale si annida Ariel Sharon.

«Volevo scrivere questo libro da quasi 20 anni, da quando, nel 2001, il processo di pace era naufragato al Summit di Taba. Mi sedevo alla scrivania e facevo ricerche sulla storia israeliana, ma non volevo fare un trattato di storia e nemmeno sviscerare le mie idee politiche. Poi, un giorno, mi trovavo in Wisconsin, dove mia moglie faceva un dottorato, e mi sono apparsi Ruthi (la donna che lo assiste, ndr) e il Generale in coma e ho capito che avevo trovato il modo: nel suo limbo potevo condensare decenni di storia. Inoltre, volevo scrivere un libro basato sul concetto di “empatia”, sul fatto che ci sono due parti e che ognuna deve riconoscere l’altra».

Il Generale non è esattamente Sharon, ha detto. Eppure hanno la stessa storia: restano entrambi in coma per otto anni, dal 2006 al 2014, quando muoiono.

«Lo scrittore americano John Gardner ha detto che la Storia è un posto dove mettere alla prova i valori. Chiunque prenda in mano questo libro avrà una propria posizione politica e crederà che sia quella giusta. Si può essere pro Israele o pro Palestina, per due Stati o per un unico Stato: quello che volevo era che, leggendo, ciascuno fosse portato a riflettere sul proprio punto di vista. Volevo che si vedessero entrambi i lati della questione. Per questo, ho inserito molte figure storiche: Ben Gurion è Ben Gurion, Arafat è Arafat. Ma Sharon era un personaggio troppo "carico" per farlo rientrare in un libro. C’è chi lo considera un eroe perché ha salvato più volte Israele in numerose battaglie, e c’è chi lo odia per gli stessi motivi. È davvero esplosiva come persona, e farlo diventare un vero e proprio personaggio non mi avrebbe permesso di costruire il racconto. Poi è chiaro che Sharon è stato in coma, e anche il Generale è in coma, ma i due non sono completamente sovrapponibili».

Sharon ha una storia personale da tragedia greca: dalla prima moglie, Margalit, che morì in un incidente stradale nove anni dopo il matrimonio, ebbe un figlio, Gur, che si sparò accidentalmente mentre giocava con un fucile del padre. Nel frattempo, Ariel si era risposato con la sorella della moglie, Lily.

«Questo è il punto: la sua storia è talmente drammatica che è praticamente impossibile potersene svincolare. Da questo punto di vista è speculare ad Arafat. Sono due figure che per decenni sono parse invincibili, immortali. Da una parte il Generale che, nonostante sia in coma, alla fine per potere morire deve in un qualche modo “darsi il permesso” di farlo, dall’altra Arafat, sopravvissuto a una serie incredibile di attacchi, come il grave incidente aereo in Libia nel 1992.Erano figure mitologiche».

Secondo lei esistono ancora dei leader così?

«(ride) Se parliamo di leader che stanno schivando pallottole, allora sì! Anche più di quelli di cui avremmo bisogno. E non auguro loro niente di buono».

Nel libro racconta, in un espisodio, di un incontro segreto tra il Generale e Arafat. Se lo è inventato?

«Sì, ma potrebbe essere anche avvenuto per davvero. L’ho inserito per far capire quante volte siamo stati vicini alla pace, e magari non lo abbiamo neppure saputo».

Il Prigioniero Z viene da Long Island come lei. Quali altre somiglianze ci sono tra voi?

«Infinite. Nella realtà, c'è stato un Prigioniero X, un agente australiano del Mossad trasferitosi in Israele del quale abbiamo conosciuto l’esistenza soltanto dopo la morte, avvenuta in seguito a una lunga e segreta prigionia per tradimento. Perché una spia tradisce?, mi sono chiesto. Per fare carriera, perché ha disordini mentali, perché è ricattata. Allora mi sono immaginato che un agente segreto del Mossad, che veniva da un altro Paese e che aveva adottato il punto di vista del committente, potesse tradire per "empatia", per avere riconosciuto che da entrambe le parti siamo uguali, che sentiamo le stesse cose. Così è nato il Prigioniero Z. Ho anche pensato a che terribile spia sarei stato io, e allora è avvenuto il matrimonio tra me e lui. Pensi che ho un amico che è tuttora convinto che io sia un agente segreto, che il mio lavoro di scrittore, con cui giro il mondo, sia solo una copertura».

Z si trasferisce in Israele per un alto ideale: contribuire al processo di pace. Anche lei lo fece per lo stesso motivo?

«Sì. E dopo tanti anni mi pare incredibile essere qui a parlare della pace come "impossibile". Non posso non pensare che eravamo vicinissimi. Come l’America: ora si dice che non è una democrazia, ma non è vero. È stata una democrazia e, anche se qualcuno l’ha rovinata, non ditemi che è impossibile riaverla. Più mi dicono che la pace è impossibile, più credo che invece lo sia. Facciamo continuamente cose impossibili: la cura per la polio, le auto che si guidano da sole, tutte cose che richiedono un enorme lavoro del cervello. La pace non è così difficile se le persone che hanno il potere la vogliono davvero. Può accadere domani. Anzi, oggi, ancora meglio».

Ha vissuto a Brooklyn, in Wisconsin, in Malawi, a Gerusalemme. Dove sono le sue radici?

«Sono stato a lungo anche a Parigi e Berlino, e ora sono tornato a Brooklyn. Ma ogni posto può diventare casa, per me, mi bastano una palestra e un coffee shop. L’esercizio fisico è fondamentale per la scrittura, mi mantiene lucido».

Uno dei temi del romanzo è il tradimento. Tutti tradiscono tutti, ma mi sembra che, alla fine, i personaggi restino leali a se stessi, ai propri veri sentimenti. È così?

«Lei la chiama lealtà, io volontà di evolvere. Il tradimento è una cosa, ma cambiare idea non è un tradimento. Evolvere, aprire la mente verso le ragioni degli altri, questo non è tradimento. È lealtà verso il proprio sé, e il sé può cambiare».

Cosa ne pensa dell'antisemitismo tornato a colpire l’Europa?

«Brooklyn e New York sono bolle: pensavo che, almeno in America, avessimo superato questo problema, ma mi rendo conto che non è così. Viviamo in tempi davvero terrificanti, e non solo per l’antisemitismo: ci sono anche il razzismo, l'omofobia. E l’amministrazione Trump che ha la politica del "non siete i benvenuti”».

Z è uno che si innamora facilmente, e ogni volta l’amore è legato al cibo. Anche per lei è così?

«Vero. Quando penso all’amore, penso sempre al fatto del prendersi cura l’uno dell’altro. Il cibo è proprio questa cosa qui. Mi porti una tazza di caffè, e io sono disposto a innamorarmi».

«Sottoterra e In Mezzo»: sono queste le parole chiave per risolvere il conflitto?

«Quando vivevo a Gerusalemme, io e i miei vicini palestinesi respiravamo la stessa aria. La stessa cosa che succede in America, tra me e i trumpisti. E ci deve essere un posto dove incontrarsi. Tutto in questo libro riguarda il limbo, uno spazio neutrale, un tunnel dove le persone si possono incontrare e dove l’amore possa finalmente nutrire se stesso».