«Ho giocato a tennis in una chiesa sconsacrata (e non ho rotto nulla)»

Grazie alla suggestiva installazione dell'artista americano Asad Raza all'interno di San Paolo Converso, a Milano, ho realizzato il mio sogno di bambino: fare sport tra gli affreschi. Senza essere rimproverato
«Ho giocato a tennis in una chiesa sconsacrata »

Da piccolo, come molti bambini, trascorrevo i miei pomeriggi a giocare nel chiostro di una chiesa. Ogni giorno, per raggiungerlo, attraversavo la navata principale col pallone stretto tra le braccia e col terrore che, se mi fosse cascato, il rumore del rimbalzo avrebbe rimbombato in tutta la chiesa. O meglio, ad essere sinceri ho sempre sperato che prima o poi mi sgusciasse dalle mani: «Chissà come sarebbe strano ritrovarmi col pallone tra i piedi in mezzo a tutte queste panche ordinate», pensavo. «Sarebbe incredibile se organizzassimo una partita qua dentro». Senza rompere nulla, s’intende.

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Da allora sono passati all’incirca vent’anni, ma siccome non è mai troppo tardi per realizzare i propri sogni mi sono infilato le scarpe da ginnastica e sono andato nella chiesa sconsacrata di San Paolo Converso, in centro a Milano, dove l’artista americano Asad Raza ha installato un vero e proprio campo da tennis. Viste le dimensioni della struttura, è un po’ più piccolo di uno regolamentare, ma ci sono rete, racchette e palline: tutto il necessario insomma per improvvisare due scambi sotto gli occhi attenti di San Paolo Apostolo, raffigurato negli affreschi di Giulio e Antonio Campi.

Che alla base della suggestiva idea di Raza ci sia ben altro che fare due palleggi in una chiesa, è naturale. Lo si capisce subito, già sbirciando da fuori: le linee del campo si scontrano con l’architettura cinquecentesca e scompigliano la classica visione altare-centrica: non più un unico focus quindi, bensì due, i giocatori. Entrando, poi, il contrasto è ancora più clamoroso: il Pvc arancione fissato in terra che sbatte contro le colonne di marmo, la rete di metà campo «custodita» da due enormi statue e le sottili reti nere che scendono dall’alto a protezione degli affreschi.

Mi tolgo la giacca, appoggio la borsa e afferro la racchetta: la pallina non arriva veloce, ma restare concentrati in una situazione come quella è tutt’altro che semplice. La colpisco con la reverenza che si deve ad una simile location, per fare il minimo rumore possibile: una, due, tre volte. E' l'unica partita in cui speri che il tuo avversario riesca a risponderti, così non c'è il rischio che la palla finisca dove non deve. «L’artista vuole suggerire una riflessione sulla necessità delle attività ricreative in una società imperniata sul lavoro», è il significato ultimo dell'installazione.

Ma per il me bambino, giocare a tennis in una chiesa senza nessuno che ti rimproveri è già uno spasso.

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