I Viaggiati, i popoli che vivono meglio senza di noi
C’è una protervia culturale che da secoli spinge l’Occidente a portare nel mondo la propria verità, religione, forma politica. E ancora, abitudini, etica, o anche solo «noi stessi» in veste di turisti. Andiamo da viaggiatori a «rapinare» l’intimità di luoghi e genti. A camminare per foreste vergini, a vedere animali in pericolo, a voler raggiungere l’Eden di popolazioni remote, spinti spesso da nessun reale interesse se non nell’essere i primi, nel fare una cosa unica. I turisti hanno preso il posto di esploratori, antropologi, geografi, e dato spazio a un rapporto fagocitante con l'altro. Ma se le popolazioni che visitiamo non ci volessero? Se non fossimo graditi o peggio, addirittura pericolosi?
Nel 2010 all’ospedale di Port Blair, in India, morì Boa Sr. Aveva 85 anni, era una donna dolce e sorridente. Era l’ultima della tribù dei Bo, una delle 10 maggiori delle Andamane e una delle più antiche dell’umanità: vivevano sulle isole del Golfo del Bengala da 55.000 anni. Come ci si sente a essere gli ultimi del proprio popolo? Soli. È incalcolabile il numero di tribù estinte nei secoli, ma decine sono in via di estinzione anche oggi. Per ragioni diverse: epidemie, deforestazione, sfruttamento minerario e in generale per ogni invasione in ecosistemi che vivono del perfetto equilibrio tra foresta e tribù. Un rapporto sacro con la natura da cui discende cibo, protezione, casa, e divinità.
Tra le minacce alla sussistenza dei popoli tribali - 150 milioni persone - c’è anche il turismo, ci siamo noi. Quando Boa Sr morì disse che gli jarawa, un’altra popolazione delle Andamane, erano stati fortunati perché si erano salvati dallo sterminio dei primi colonizzatori britannici. Ma sono del 2012, solo due anni dopo la sua morte, i video che mostrano gruppi di turisti che buttano banane alle donne jarawa e poliziotti che le forzano a ballare per delle noccioline. Sono i «safari umani» raccontati dal giornalista del The Observer Gethin Chamberlain: centinaia di jeep in fila sulla strada che attraversa la riserva jarawa per sperare di «avvistare i primitivi». Perché lo facciamo? «Per un senso di superiorità, perché ci sentiamo diversi e anche per fare una cosa unica», dice Sophie Grig di Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. «La cosa peggiore è pensare che gli jarawa siano diversi da noi. C’è un forte senso di razzismo in chi vuole solo fare un foto al “primitivo”. Nonostante l'Alta Corte indiana abbia stabilito la chiusura della strada nella riserva, e ci sia una via d’acqua alternativa, niente è cambiato, e i safari per “avvistare il selvaggio” continuano».
Un «turismo etnico» venduto come plausibile ma che per molti versi assomiglia a una riedizione contemporanea del fenomeno degli «zoo umani» della fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, come racconta Viviano Dominici nel suo libro Uomini nella gabbie (Il Saggiatore, 2015). Persone di ogni etnia esposti come animali agli Expo europei, o come il pigmeo Ota Benga, che chiuso a 22 anni nella gabbia delle scimmie allo zoo del Bronx, si suicidò a 32.Le foto dei visitatori di allora accanto ai «selvaggi» non sono molto diverse da quelle dei turisti di oggi in posa con le donne-giraffa thailandesi, chiuse in villaggi-prigione che esistono solo come attrazione. Le donne kayan, profughe dalla Birmania in Thailandia, non hanno ricevuto status di rifugiate: non hanno passaporto, non possono lavorare, studiare, pernottare fuori dai loro villaggi. Ma devono mettere in scena ogni giorno la «tradizione di se stesse», tessendo e vendendo prodotti artigianali ai turisti che pagano un biglietto per vederle.
Popoli il cui diritto di vivere liberamente la propria cultura nei territori che hanno abitato per millenni vengono ignorati, come nel caso di alcune tribù incontattate dell'Amazzonia, le cui terre vengono insidiate da tagliatori di legna e ricerche petrolifere, ma non solo: in alcune zone del Perù sono stati documentati avvicinamenti da parte di missionari e turisti verso tribù di indigeni.
O come nel caso dei «rifugiati della conservazione», migliaia di individui sfrattati dalle loro terre per creare riserve naturalistiche. «È un atteggiamento razzista, ma anche il risultato di un’ideologia conservazionista cieca portata avanti da grandi associazioni come il WWF» - commenta Fiore Longo antropologa di Survival: «Nelle riserve delle tigri in India è stato dimostrato che il numero dei felini aumenta là dove i popoli indigeni hanno ottenuto i diritti di continuare a vivere nella loro terra». Eppure gli sfratti nei parchi indiani continuano con pestaggi, torture, minacce. Guardie con il permesso di sparare a vista e ragazzini morti o feriti per essere entrati all’interno di confini del parco, come è stato documentato nel Kaziranga Park, uno dei più visitati, anche da Kate e William d’Inghilterra. Il fatto è che siamo - spesso inconsapevolmente - turisti ingombranti, a volte origine stessa del problema, anche quando crediamo di fare bene.
«L'idea della natura che ci hanno venduto è falsa» aggiunge Fiore Longo «Nei documentari vediamo un uomo bianco che esplora ambienti selvaggi ma non si inquadrano mai le popolazioni che vivono in quegli stessi luoghi. L’idea degli spazi immensi e vuoti è artificiale. Alcuni villaggi masai con le loro mandrie di bovini sono stati spazzati via dai parchi del Kenya perché "rovinavano il panorama"». È la nostra terribile ingenuità, la nostra pretesa di vedere il «film della natura» per come pensiamo di conoscerlo. E così vogliamo vedere «l'indigeno», possibilmente senza orologio o scarpe da ginnastica per una foto migliore.
Qual è la soluzione? «Per chi viaggia informarsi sempre sui luoghi dove si va», dice Longo. «Ancora più importante è dare piena sovranità ai popoli tribali nelle proprie terre». E se non volessero i turisti? «Beh ce ne faremo una ragione. Del resto mi sembra che in tanti si debbano fare una ragione di non avere un permesso di soggiorno nel nostro mondo».
Grazie per la consulenza a Survival International e in particolare a Fiona Watson, responsabile delle campagne di Survival International, Sophie Grig, ricercatrice senior di Survival International, Fiore Longo, ricercatrice di Survival International, Alice Farano, responsabile ufficio stampa di Survival Italia.