I Viaggiati, i popoli che vivono meglio senza di noi

C’è una presunzione culturale che da secoli spinge l’Occidente a portare nel mondo la propria verità, religione, forma politica. E ancora, abitudini, etica, o anche solo «noi stessi» in veste di turisti. Ma se le popolazioni che visitiamo non ci volessero? Se non fossimo graditi o peggio, pericolosi?
I Viaggiati i popoli che vivono meglio senza di noi

Un Jarawa ripreso da un turista lungo la Andaman Trunk Road. © Survival

Un «turismo etnico» venduto come plausibile ma che per molti versi assomiglia a una riedizione contemporanea del fenomeno degli «zoo umani» della fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, come racconta Viviano Dominici nel suo libro Uomini nella gabbie (Il Saggiatore, 2015). Persone di ogni etnia esposti come animali agli Expo europei, o come il pigmeo Ota Benga, che chiuso a 22 anni nella gabbia delle scimmie allo zoo del Bronx, si suicidò a 32.Le foto dei visitatori di allora accanto ai «selvaggi» non sono molto diverse da quelle dei turisti di oggi in posa con le donne-giraffa thailandesi, chiuse in villaggi-prigione che esistono solo come attrazione. Le donne kayan, profughe dalla Birmania in Thailandia, non hanno ricevuto status di rifugiate: non hanno passaporto, non possono lavorare, studiare, pernottare fuori dai loro villaggi. Ma devono mettere in scena ogni giorno la «tradizione di se stesse», tessendo e vendendo prodotti artigianali ai turisti che pagano un biglietto per vederle.

Ota Benga, pigmeo del Congo fu prelevato dal suo villaggio e portato negli Stati Uniti. Nel 1904 fu esposto nella gabbia delle scimmie allo zoo del Bronx, New York. Tentò di tornare in Africa e quando capì che non sarebbe riuscito si suicidò con un colpo di pistola al cuore. La sua storia è diventata un film-documentario nel 2015.

Popoli il cui diritto di vivere liberamente la propria cultura nei territori che hanno abitato per millenni vengono ignorati, come nel caso di alcune tribù incontattate dell'Amazzonia, le cui terre vengono insidiate da tagliatori di legna e ricerche petrolifere, ma non solo: in alcune zone del Perù sono stati documentati avvicinamenti da parte di missionari e turisti verso tribù di indigeni.

O come nel caso dei «rifugiati della conservazione», migliaia di individui sfrattati dalle loro terre per creare riserve naturalistiche. «È un atteggiamento razzista, ma anche il risultato di un’ideologia conservazionista cieca portata avanti da grandi associazioni come il WWF» - commenta Fiore Longo antropologa di Survival: «Nelle riserve delle tigri in India è stato dimostrato che il numero dei felini aumenta là dove i popoli indigeni hanno ottenuto i diritti di continuare a vivere nella loro terra». Eppure gli sfratti nei parchi indiani continuano con pestaggi, torture, minacce. Guardie con il permesso di sparare a vista e ragazzini morti o feriti per essere entrati all’interno di confini del parco, come è stato documentato nel Kaziranga Park, uno dei più visitati, anche da Kate e William d’Inghilterra. Il fatto è che siamo - spesso inconsapevolmente - turisti ingombranti, a volte origine stessa del problema, anche quando crediamo di fare bene.

«L'idea della natura che ci hanno venduto è falsa» aggiunge Fiore Longo «Nei documentari vediamo un uomo bianco che esplora ambienti selvaggi ma non si inquadrano mai le popolazioni che vivono in quegli stessi luoghi. L’idea degli spazi immensi e vuoti è artificiale. Alcuni villaggi masai con le loro mandrie di bovini sono stati spazzati via dai parchi del Kenya perché "rovinavano il panorama"». È la nostra terribile ingenuità, la nostra pretesa di vedere il «film della natura» per come pensiamo di conoscerlo. E così vogliamo vedere «l'indigeno», possibilmente senza orologio o scarpe da ginnastica per una foto migliore.

Qual è la soluzione? «Per chi viaggia informarsi sempre sui luoghi dove si va», dice Longo. «Ancora più importante è dare piena sovranità ai popoli tribali nelle proprie terre». E se non volessero i turisti? «Beh ce ne faremo una ragione. Del resto mi sembra che in tanti si debbano fare una ragione di non avere un permesso di soggiorno nel nostro mondo».

Grazie per la consulenza a Survival International e in particolare a Fiona Watson, responsabile delle campagne di Survival International, Sophie Grig, ricercatrice senior di Survival International, Fiore Longo, ricercatrice di Survival International, Alice Farano, responsabile ufficio stampa di Survival Italia.