Uzbekistan, le città invisibili

Qui Sherazade raccontava le sue storie, Aladino ha trovato la lampada e si balla al suono minerale del qayroc. Tra fortezze di maiolica, cupole sospese e sabbie leggendarie, eccoci in Uzbekistan, il Paese del miraggio. Guidati da Tamerlano
Uzbekistan le città invisibili

Quando entro nel ristorante Tarona, la mia prima sera a Taškent, la capitale dell’Uzbekistan, il musicista Aliev sta cantando con trasporto, accompagnato dall’allegro sottofondo che esce da un computer portatile. Nel frattempo crea elaborati ritmi con il qayroc, composto da due pietre ovali piatte che producono un suono simile a quello delle nacchere, ma dalla consistenza minerale. Sto ballando con gli altri, tutti guidati dalla sorella di Aliev, la quale, vestita di arancione, scarpe con la zeppa e vaporosa chioma di capelli neri, sembra uscita da una Kodachrome del 1962.Ci sta insegnando una sorta di ondeggiamento del corpo, da compiere allargando e sollevando con grazia le braccia. La musica, una spensierata combinazione di pop rock uzbeko e sovietico anni Ottanta, è contagiosa.

«Ma poi, dove sta l’Uzbekistan?», mi chiedevano gli amici. L’Uzbekistan è uno dei Paesi più «altri» che si possano immaginare. A est e leggermente a nord della Turchia, oltre il Mar Caspio, e circondato da tutti gli altri «-stan», le repubbliche un tempo parte dell’Unione Sovietica: dall’alto in senso orario Kazaki-, Kirghizi-, Tagiki- e Turkmeni-. E fra tutti gli «-stan», l’Uzbekistan è il più popoloso (32 milioni di abitanti), musulmano all’80 per cento e, almeno ufficialmente, democratico. Fatto in gran parte di deserto e steppe semiaride, contiene montagne, valli fertili, laghi e grandi fiumi.

Forse perché Stalin poi lo nascose dietro la Cortina di Ferro, l’Uzbekistan è ancora oggi un posto di cui pochi, in Occidente, sanno granché. Eppure possiede una storia millenaria: conquistato da Alessandro Magno, governato da Gengis Khan; nel cuore della Via della Seta, grazie alla quale si arricchì commerciando con le carovane di cammelli che trasportavano carta, vetro, polvere da sparo e cannella, ma anche cani da caccia, miele e schiavi – per non parlare di idee e religioni – fra la Cina e Roma.

L’autore delle Mille e una notte faceva raccontare a Sherazade le sue storie, e ad Aladino trovare la sua lampada magica, nella città uzbeka di Samarcanda. Dopo l’avvento dell’Islam, e ripetuti passaggi dei mongoli, il XIV secolo vide l’ascesa di un esteso impero, che poi si dissolse in vari regni islamici, chiamati khanati ed emirati, per poi arrendersi a 67 anni di dominio sovietico prima che nel 1991 il Paese raggiungesse l’indipendenza. Sentori sovietici sopravvivono non solo nella musica e nell’anonima architettura urbana, ma anche in alcune imposizioni statali – per esempio l’obbligo di segnalare le tappe previste alla richiesta del visto – e questo spiega come mai i turisti finiscano per attenersi a percorsi consolidati.

Ma nella città di Bukhara – 2.500 anni di storia – i russi sembrano dimenticati. Davanti alle impressionanti dimensioni del complesso religioso del Kalon i ragazzini suonano tamburi. A Bukhara siamo arrivati in poco più di 4 ore da Taškent, a bordo di un moderno treno. Comincio a vagare per il centro storico, all’ombra deliziosa di cupole in mattoni di argilla che risalgono al Medioevo. Vie e bazar sono pieni di gruppi che suonano, e più di una volta vengo invitata, con gentile fermezza, a ballare. Volteggiando da un compagno di danza all’altro imparo i gesti che significano «ecco la via per il mio cuore» (tre colpi sul braccio sinistro, poi un lancio verso il cielo) e il battito del cuore (due dita piegate che ondeggiano davanti al petto). Fin dall’arrivo sono stata accolta con calore, abbracciata e invitata a visitare case. Come americana in un Paese musulmano, e in un clima internazionale così teso, mi sorprendo a danzare musiche dagli echi mediorientali, est-europei e cinesi. Siamo, in fin dei conti, al crocevia dei mondi.

La mia valigia è riempita con cura di gonne ampie e camicette a maniche lunghe, ma scopro che posso indossare ciò che mi pare. Vedo un gruppetto di studentesse universitarie in maglietta, jeans e cappellino con la visiera. Di gonne corte non se ne vedono molte, ma di burqa nemmeno uno. I sovietici li proibirono. La mia guida mi spiega anzi che lo Stato, temendo il diffondersi di atteggiamenti fondamentalisti, permette solo agli anziani di portare la barba lunga. Solo il 17 per cento dei musulmani è praticante, la versione dell’Islam visibile (perlomeno intorno a me) è più disinvolta e secolare di quella presentata dai media occidentali. E da queste parti anche la compresenza religiosa ha lunghi trascorsi. Aziz, la guida, mi fa notare croci cristiane accanto a stelle ebraiche nei mosaici di varie moschee e madrasse – ovvero scuole islamiche. Raccontano di un tempo in cui le tre grandi religioni convivevano amabilmente lungo la Via della Seta.

Nel pomeriggio visitiamo gli artigiani nei freschi mercati coperti dagli alti soffitti. Seduto al suo telaio, Rasul Mirzaahmedov mi spiega con noncuranza il fatto che nel 2008 Oscar de la Renta abbia usato il suo ikat, l’antica tecnica per la colorazione dei tessuti, in una collezione. Lui si serve solo di tinture naturali, ricavate da melograno, radice di robbia, cipolle, zafferano e noci. Se a Bukhara, nei vicoli ombrosi del centro storico, regna un’abbondanza di musica e artigianato, Samarcanda, dove il treno ad alta velocità Afrosiyob ci deposita in meno di tre ore, a una prima occhiata offre un paesaggio anonimo: ampi viali alberati, edifici di cemento e vetro. La città ha non meno di 2.700 anni, ma è solo quando al tramonto vengo portata nel Registan che la storia comincia a pulsare. Piazza di dimensioni e bellezza epiche, il Registan (che significa «luogo sabbioso») è circondato su tre lati da gigantesche madrasse ricoperte da minuziosi mosaici costruite fra il XV e il XVII secolo. Prima di allora, la piazza era destinata agli artigiani, agli annunci, alle esecuzioni e alla sabbia.

L’altro tratto tipico della città, oltre alle imponenti e dettagliate architetture antiche, è la sua ricchezza di storie: non solo quelle di fantasia, venate di soprannaturale e con protagonisti come Sherazade e Aladino, ma anche basate su fatti reali. Molte ruotano intorno all’emiro Tamerlano, un sovrano del XIV secolo il cui impero si estendeva da Delhi a Costantinopoli. Pur responsabile della morte di milioni di persone, era un poliglotta, uno scacchista provetto, nonché appassionato di architettura.

Mentre attraversiamo le luccicanti moschee e i mausolei azzurri e turchesi che un tempo facevano parte del suo impero, Aziz mi racconta storie della vita dell’emiro, come quella della moschea di Bibi-Khanym. La donna di cui porta il nome era, delle diciotto mogli di Tamerlano, il suo vero grande amore, una principessa cinese che non poteva avere figli. L’emiro fece costruire la moschea in suo onore, ma i lavori furono interrotti dall’architetto persiano che a sua volta si era innamorato della donna, e che forse, non è certo, potrebbe essere stato gettato da una torre. Per dirla con Aziz, «i pettegolezzi durano ancora oggi».

di Daphne Beal  foto Felix Odell