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Palazzo Sursock, Beirut

Intanto non è facile arrivarci. Palazzo Sursock, accanto al museo Sursock, nella via naturalmente Sursock. Per trovare Yvonne Cochrane Sursock, novantasei anni, la più fondamentale dama del Libano, bisogna esplorare il dosso di una collina che domina Beirut, unico palazzo mai bombardato della città devastata dalle guerre civili (per rispetto, tranne una bombetta dimostrativa).
Palazzo Sursock Beirut
Stefan Ruiz

«Ma io sono nata in albergo! Perché a Napoli c’era un’epidemia, e a palazzo Cassano mia madre non mi voleva tenere», dice lady Cochrane; sottile, i capelli bianchi, un tailleurino Chanel chiaro, rifulge accanto a un termosifone nella mattina mediorientale, vicino alla finestra, appuntata come una spilla di brillanti nel suo sofà di velluto rosso. Legge in francese un giornale locale. Lei nasce molto ducale, da una mamma Serra di Cassano e da un papà Sursock, autobiografia del Libano, ma molto prima ottomana (banchieri, mercanti, sibariti, imparentati con tutte le famiglie regnanti e meno). Secondo la storica Leila Fawaz, «la più grande scalata sociale del Diciannovesimo secolo». «Andavamo sempre ad Alessandria, c’era una beach life molto divertente, cosmopolita, tutto finito. Un altro ambiente». Un altro ambiente: ricordi mediorientali di quando il Middle East non era la landa di geopolitiche sabbiose-depressive e regimi gaglioffi dell’idrocarburo, bensì un posto «molto divertente e cosmopolita», le due parole che lady Cochrane usa più spesso, in quattro lingue. Lei è anche un po’ Giulia Maria Crespi, «sa, ho fondato questa associazione, Amsad, per la conservazione di vecchi edifici. Abbiamo salvato diversi palazzi, ma se non ci stai dietro, alle cose», dice. «Beirut era una città piccola e bellissima; oggi è grande ed è orrenda. Ma l’architettura libanese è molto elegante». E in effetti Beirut, pur sparata tipo pointillisme, tra il non finito simil-calabrese, ha una sua maestosa eleganza, e non c’è davvero un palazzo brutto, né nuovo (tantissimi, operazioni si dice di bestiale riciclaggio delle società collegate alla famiglia Hariri), né vecchio, ma sono rarissimi. «Tutti bombardati. Qui da noi solo una bomba, vada, vada a vedere, nel vestiaire». Si va, fondamentale cameretta con boiserie siriane settecentesche. Lei ha la civetteria della guerra, non ha mai abbandonato l’edificio neanche nei momenti più pericolosi quando tutti scappavano anche dal palazzo di Ashrafiyeh, questa collina che un tempo vedeva solo il mare, e oggi è circondato da grattacieli. «Queste orribili costruzioni vuote». Lei è proprio l’ultima della sua razza.

La hall di Palazzo Sursock. Foto Stefan Ruiz

Ma la parentela più chic e letteraria è certamente quella coi Colonna, i meglio principi romani. Sua cugina era infatti Isabelle Sursock Colonna, che per quasi un secolo regnò su Roma. Protagonista di “Ka- putt” di Curzio Malaparte, il nostro “Preghiere esaudite” romano. Fu certamente amante di Galeazzo Ciano, forse addirittura spia. «Era così bruttina», dice lady Cochrane. «Ma molto divertente» (lady Cochrane ride, con un riso un po’ affannato, che fa da intervallo tra gli switch tra italiano, inglese e francese). «A Beirut non c’era niente, era una piccola città noiosa, dunque si andava sempre a Istanbul, che era molto divertente e cosmopolita» (pronuncia Istamboul, alla francese). «Dunque mio zio aveva questa figlia maggiore, Mathilde, molto bella e molto noiosa; alta, bruna. A un ricevimento conosce il marchese Theodoli, che era segretario d’ambasciata. Si sposano. Veniva spesso a trovarlo il principe Colonna, suo amico. Rimane molto colpito. “Mannaggia, la volevo sposare io”, dice. Mathilde non perde tempo: “Non ti preoccupare, c’è mia sorella. Identica”». La fanno chiamare subito, lei arriva, ed era «piccola, bionda, bruttissima. Ma così divertente!». Quando ancora non c’erano i fondi sovrani (ma c’erano i sovrani), le due sorelle procedettero al più elegante aumento di capitale nell’aristocrazia romana decotta. Isabelle specialmente rispolverò i fasti di palazzo Colonna ai Santi Apostoli e governò su Roma fin quasi a cent’anni, con un ruolo di ufficiosa regina d’Italia, dopo (e un po’ anche prima) la morte di Maria José. Ma era poi una spia? Himmler la chiamava la “quinta colonna”, perché perennemente in contatto col Vaticano e con gli antinazisti. Microspie dappertutto nei pranzi. Rapporto mefistofelico con Ciano. «Ma no, credo che sia una fantasia. Mia madre piuttosto la rimproverava sempre perché non invitava a cena gli ambasciatori libanesi. “Sei diventata troppo romana! Ricordati che sei libanese”, le diceva. Con uno, si mise in testa di chiamarla ogni giorno al telefono, per sei mesi, finché Isabelle cedette. Una volta sola lo invitò, perché diceva che era troppo pesante, ma questo bastò perché lui fu poi invitato dappertutto».

La copia di Sansone catturato dai Filistei,1619, del Guercino (1591- 1666). Foto Stefan Ruiz

Isabelle Colonna fu la madre di tutti i salonismi romani, le Angiolillo, le Carraro andavano in pellegrinaggio tipo alla Mecca. «Quando nel 1910 sposò Marcantonio Colonna, a Roma la chiamavano la petite Sursock, e dissero che i Colonna gli infedeli li avevano già vinti une fois, a Lepanto... Ma i Sursock si sa che sono sempre stati cristiani», ride lei. «Vengono dal Nord della Siria, poi sono scesi giù. Sursock viene da Sir-Isack, il figlio di Isacco. C’erano già nel 1100. Poi sono andati un po’ giù socialmente. Nel Seicento c’era un Sursock che era fermier général, collettore delle tasse in Siria, quello è molto importante. Nel 1710 siamo venuti qui. Avevamo delle proprietà anche in Palestina, poi abbiamo venduto» (in realtà avevano praticamente tutta la Galilea, che hanno ceduto al Fondo nazionale ebraico già negli anni Dieci). Allo Stato di Israele lei ha successivamente fatto causa perché le avevano requisito due palazzi a Jaffa. In realtà Yvonne Sursock ha forse qualcosa della cugina, il ruolo di governatrice occulta della città (e Roma è così mediorientale): oggi è anziana e pare una dolce vecchina, ma a Beirut si dice che la prima cosa che gli ufficiali del Kgb facessero era rendere omaggio a casa Sursock.

Sopra il divanetto di velluto, un quadro di Bernardo Cavallino (1616- 1656) raffigura il re Salomone e la regina di Saba. Foto Stefan Ruiz

Questa casa: grandioso decadente mistone tra un palazzo veneziano, le Mille e una notte e una villa da Costa Azzurra però in coppa a Posillipo. Guido Reni, Luca Giordano, Artemisia Gentileschi, il ritratto di mammà donna Maria Teresa Serra fatto da Corcos. Dar e liwan, archi veneziani, fontane. «Ah, ma non guardi questo Guercino, che è una copia, quell’altro è quello buono. Non quello. Quell’altro. Quello l’hanno rubato, mi hanno convinto a farlo pulire, ché era sporco, e ora sta al Metropolitan. Devo ricordarmi di parlare al presidente libanese, per farlo tornare, ma forse non gli importa niente». Lady Sursock non lo dice, ma è l’unica libanese ad aver trasmesso il cognome ai figli, tipo Mountbatten-Windsor (una legge fatta su misura, in vigore solo per tre ore, narra la leggenda). Lei al potere è sempre stata vicina. Dialogante, diciamo. Rafik Hariri è «un adolescente ritardato», ha detto in una intervista del presidente-palazzinaro che ha disseminato Beirut di speculazioni immobiliari.

Il palazzo Sursock è stato costruito dal nonno che naturalmente ha avuto un ruolo di finanziatore del canale di Suez (lo zio George invece che ha dissipato un poco la fortuna di famiglia – Belle Époque, Borsa, i classici insomma – inviò al fratello Alfred una azione del canale. «Questo è tutto quello che c’è rimasto!»). Per fortuna non era vero.

In un angolo della hall, una veduta veneziana di Canaletto. L’antico scrittoio è in ebano nero. Foto Stefan Ruiz

Passiamo a prendere il déjeuner. Tavolino con posatone d’argento belle consumate, maggiordomo vecchiotto con capello corvino, uniforme blu. A lui lady Cochrane si rivolge in arabo fitto fitto, che la rende più marziale. Come sono le sue giornate? «Oh, leggo tanto», e in effetti la “petite bibliothèque” al pianterreno è una vera biblioteca in tante lingue, Balzac e Umberto Eco ed Enzo Biagi (per quella seria c’è la grande da 8mila volumi al primo piano). Nella petite bibliothèque ci sono anche dei dvd di “Downton Abbey”, che lei guarderà come noi si guarda dei film sui poveri, neorealisti. Lei aveva un precettore? «Oh, no, cresciuta tra donne. Con maman, una nanny, e la duchesse d’Uzès, che mio padre aveva conosciuto a Parigi e veniva sempre qui a trascorrere l’inverno. Lei era una Galitzine, e diceva che qui c’era il fantasma di Tolstoj che le dormiva sui piedi, ma Tolstoj non è mai stato qui, non ha proprio senso», e ride. Una piccola parmigiana di carciofi, un potage, une petite salade. Lei vuole in continuazione altro sale. «Ne ha già messo tre volte, madame», il maggiordomo. Lei gli fa la ramanzina in arabo e per un po’ viene fuori come doveva essere la dama di ferro sotto le bombe. «Mettono sempre poco sale. Ci scusi. Non come il cuoco di papà, che avevamo mandato naturalmente a formarsi a Parigi». Mette altro sale. «Papà dipingeva». Lei non l’ha mai conosciuto perché è morto che era poppante. Era ambasciatore della Sublime Porta a Parigi, e tra un quadretto e un cuoco ha negoziato la pace a Versailles decidendo la spartizione dell’impero ottomano. «E poi s’è rovinato regalando tutto il grano ai libanesi». Alfred Sursock, specie di eroe nazionale, finanziò fabbriche fasulle per poter dare uno stipendio a inutili maestranze (perché la popolazione moriva di fame e una legge intimava di sfamare solo gli operai). «Io non ho più il titolo sa, non sono più lady Cochrane», ride, «ce l’ha mia nipote il titolo», e chiede altro sale. È la Dowager Countess libanese! Ogni tanto si scorda e ripete una domanda. «Lei di dov’è? Di Napoli?». La si aiuta con le foto. Da un librone magnifico di suo nipote Francesco Serra di Cassano, su un leggendario ballo per le Olimpiadi 1960: duecento valletti, due re (Spagna e Grecia) a Napoli, in casa sua. «Ah, ma io non c’ero, c’erano qui i ragazzi in vacanza da Eton, che facevo, me ne andavo e li lasciavo qua?».

Foto Stefan Ruiz.

Casa Vogue, aprile 2019, pag.120