Lagos: Vogue incontra i talenti creativi della città

È la capitale del cinema, dell'arte e della moda. E noi, a Lagos per la fashion week, abbiamo incontrato i protagonisti della fashion scene più emergente
Lagos Vogue incontra i talenti creativi della città
Lagos e la moda
Gallery16 Immagini
Visualizza Gallery

Lagos non è, come molti pensano, la capitale della Nigeria: dal 1991 il titolo è passato ad Abuja. Ma con i suoi 21 milioni di abitanti circa,  resta comunque la capitale di tutto il resto: del business, ovviamente  (l’uomo più ricco d’Africa, Aliko Dangote, vive qui), e naturalmente del cinema (Lagos è la sede della terza industria cinematografica più grande del mondo), ma anche della moda, della musica  e dell’arte, tutti settori che beneficiano della potenza creativa e imprenditoriale di questa metropoli sorprendentemente grande. Questo mese, con un’interessante serie di appuntamenti glamorous fra cui la Lagos Fashion Week e la fiera dell’arte contemporanea  ART X Lagos, la città sta vivendo un momento di grande fermento culturale.

Omoyemi Akerele founder della Lagos Fashion Week «L’energia, la gente, l’atmosfera, sono incredibili. Non riesco a immaginare di fare tutto questo in un altro luogo», afferma Omoyemi Akerele, che ha lanciato la Lagos Fashion Week nel 2011 in reazione a quella che considerava una scena locale ormai stantia. «La moda veniva considerata come un passatempo,” ricorda. “A nessuno interessava capire come i designer potessero riuscire a far vedere le loro creazioni alle persone giuste. Per moltissimo tempo i designer in Nigeria erano sempre gli stessi». La Lagos Fashion Week, che presenta le creazioni di griffe da tutto il continente, attira un pubblico internazionale, e Akerele è la promotrice globale della moda africana. E ci tiene moltissimo a sdoganare certi stereotipi: «A volte la domanda è: esiste un designer la cui estetica non sia cosi spiccatamente africana? Anche se non ci sono le stampe, i disegni, il décor, la domanda è sempre quella, ‘Ah, ma è un brand africano?’ Quello che  vogliamo dire  è: ‘Guarda, questo stilista avrà un design essenziale, quasi minimalista, ma questo non vuol dire che sia meno africano’».

Tokini Peterside, fondatrice di Art X Lagos

E la scena artistica, in rapida espansione, racconta la stessa storia. «La maggior parte delle fiere d’arte prevede pareti bianche e spoglie e un’esperienza molto formale. Noi siamo diversi, noi ci adattiamo al nostro territorio», dice a Vogue Tokini Peterside, fondatrice di Art X Lagos, quando ci incontriamo da Miliki, un club esclusivo nel distretto di Victoria Island. Nata nel 2016, ART X Lagos viene spesso descritta come la Frieze dell’Africa occidentale (quest’anno presenta i nuovi lavori dell’artista anglo-nigeriano Yinka Shonibare) – ma il paragone non è così lampante. «ART X Lagos è un’iniziativa orgogliosamente locale, e noi vogliamo esprimere l’essenza e lo spirito della nostra città», spiega Peterside, che, cosa davvero unica, ha collaborato con l’industria musicale per inserire i nuovi  eventi di ART X Live! accanto alle classiche mostre nelle gallerie. «La scena musicale nigeriana è la più vivace di tutto il continente, abbiamo pensato che, in questa città, non potevamo non includerla nella nostra iniziativa».

Odunsi, musicista e produttore Ecco perché Odunsi, musicista e produttore il cui ultimo album non solo ha raggiunto le vette della classifica Apple Music in Nigeria ma si è piazzata al numero quattro dell’ equivalente classifica R&B nel Regno Unito, è al timone di ART X Live! come direttore creativo. «Vivere a Lagos è come trovarsi in una posizione intermedia, e vedere il mondo da entrambi i lati», afferma. «Sei di un Paese del terzo mondo ma hai accesso alle stesse informazioni di chi vive nel primo mondo. Ma chi vive nel primo mondo di solito non riceve informazioni su un Paese del terzo mondo». Ed è un concetto che sembra avere molta importanza per molti dei creativi presenti  a Lagos questa stagione. «È una città piena di contraddizioni», dice Peterside. «Ci sono tante cose che non funzionano, ma la gente ha sempre uno spirito positivo. Nessuno a Lagos ha un atteggiamento passivo».

La ‘ragazzina ingenua’ dell’arte: Bolatito Aderemi-Ibitola

Nata a Lagos ma cresciuta negli Stati Uniti, la 25enne Bolatito Aderemi-Ibitola ha generato una vera crisi familiare quando, nel 2014, ha annunciato di voler tornare nella terra in cui è nata. «Mi hanno detto, ‘Non andare!’». Ma con all’attivo un Master alla Tisch School of the Arts di New York, Aderemi-Ibitola era molto determinata,  ha fatto il grande salto ed è partita. Arrivata nella sconcertante megalopoli, è andata a vivere con la figlia del migliore amico di suo padre, ma è stato molto difficile per lei riuscire ad affermarsi. «Non conoscevo nessuno e non sapevo nulla della scena artistica. Ero davvero a terra. Non sapevo dove andare. Non avevo un automobile, non c’erano mezzi di trasporto». Tenacia e talento hanno portato alla fine grandi risultati:  è la vincitrice di quest’anno dell’ ART X Prize per l’arte contemporanea.

Il suo portfolio comprende performance art, arte digitale e video, e teatro, discipline che considera molto diverse fra loro, ma afferma che, se c’è qualcosa che le accomuna, è il suo interesse per il concetto matematico di interpolazione. «Si parte da un punto, da una sorgente, e da lì si arriva a qualcos’altro, e poi a qualcosa di ancora diverso. Sono come tante tangenti immaginarie che si muovono in direzioni diverse, ma che sono tutte collegate fra loro, e non hai idea di dove andranno a finire». E nelle dinamiche che si osservano a Lagos c’è qualcosa di simile a questo, dice, il modo in cui tutto viene mescolato insieme e nello stesso momento. «Credo che Lagos riesca a farlo molto bene, ci sono cose che non sembrano poter coesistere e invece in qualche modo funzionano e riescono a durare nel tempo».

La rivoluzionaria - Lisa Folawiyo Quando, nel 2002 , il governo nigeriano ha messo al bando le importazioni di tessuti nel tentativo di salvaguardare la sua industria tessile in declino, per Lisa Folawiyo si presentò una nuova opportunità.  Cominciò ad andare nei mercati locali, a studiare più da vicino gli onnipresenti tessuti ankara con stampe wax  con cui era cresciuta, e poi, come dice elegantemente, «Ho semplicemente iniziato a creare abiti». Oggi la sua griffe omonima, amata da Lupita Nyong’o e Solange Knowles, è una delle più desiderate di tutto il continente: il suo negozio, luogo del nostro incontro,  è una  sorta di cubo bianco candido nel ricco quartiere di Ikoyi. Ed è stato proprio il mix originale di Folawiyo – stampe tradizionali dell’Africa occidentale, sete preziose,  tagli sartoriali impeccabili – a spianare la strada ai tantissimi nomi nigeriani oggi apprezzati in tutto il mondo, come Maki Oh e Orange Culture (ne parliamo sotto). Per realizzare i suoi capi riccamente decorati sono necessarie fino a 240 ore di lavoro (e questo rende il prezzo base di un suo abito, 500 sterline, un importo accettabile) . Se il processo creativo è molto elaborato, lo stile di Folawiyo nasce da un bisogno semplice. «Non riuscivo a trovare un solo stilista nigeriano che mi piacesse davvero indossare», spiega. «Gli abiti erano visti come dei costumi. Oggi le cose sono diverse: noi ci prendiamo più sul serio, e allo stesso modo anche i talenti della moda nigeriana vengono presi più sul serio in tutto il mondo».

I ‘neutralizzatori’ – Adebayo Oke-Lawal and Rich Mnisi «Frequentavo una scuola maschile ma non riuscivo a integrarmi», dice Adebayo Oke-Lawal, designer 28enne di Lagos. «C’erano troppe domande su ogni cosa, dalla mia voce troppo sottile alle mie stravaganze, e mi sentivo come se in qualche modo essere me stesso fosse sbagliato». Ma è stato proprio un tema assegnato a scuola a ispirare più di ogni altra cosa la creazione del brand ‘gender-neutral’ di  Oke-Lawal, Orange Culture. A ogni studente della sua classe  era stato assegnato un colore, e chiesto di scrivere una storia su quel colore: il suo tema, “The Orange Boy”, il ragazzo arancione, era una celebrazione dell’individualità. La gente, spiega, «è arancione, che non è il colore più facile da guardare, ma quando le persone sono davvero sincere con se stesse, è una cosa bellissima». Ed è rimasto fedele alla sua filosofia: alla sua sfilata di venerdì alla Lagos Fashion Week i suoi abiti morbidi, dai colori opulenti (come rosso carminio e blu cobalto) che lo avevano fatto arrivare in finale alla prima edizione dell’ LVMH Prize per giovani designer (lui era l’unico africano) erano ancora presenti, completati da una serie di short, gonne e pantaloni con paillettes.

Rich Mnisi, stilista di base a Johannesburg, ha sfilato la sera prima del suo amico Oke-Lawal. Il designer 26enne dal 2015 crea abiti ‘gender-neutral’ con la sua linea omonima, e di recente ha scelto di presentare le sue collezioni senza una precisa stagione di riferimento. «Non ho un programma preciso, lavoro in modo fluido, e le stagioni primavera/estate o autunno/inverno non funzionano necessariamente anche per i designer africani. Fosse per noi, avremmo solo l’estate, a essere sinceri», dice, fra il serio e il faceto. L’ultima collezione di Mnisi è un mix eclettico di stampe floreali, color-block audace e pelle dalle forme architetturali, il tutto uniformato da un mood totalmente sporty. Oltre a soddisfare le esigenze del mercato africano, Mnisi si appassiona quando afferma di voler aprire gli occhi del mondo sul talento africano contemporaneo. «Una delle difficoltà più grandi per me è quando i buyer internazionali hanno un’idea preconcetta di come dovrebbero essere le creazioni di un designer africano», racconta. «La verità è che sono cresciuto con mia madre che indossava gonne plissé e camicette in seta, non certo pelli di animali».

L’attivista – Anyango Mpinga «Un bel vestito non è più così bello se per realizzarlo qualcuno ha sofferto», afferma la stilista keniota Anyango Mpinga in un’intervista nella galleria Terra Kulture, a Victoria Island. La sua ultima collezione è bella in tutti i sensi, e comprende chemisier in sangallo, cappellini alla Mary Poppins e vestiti in seta decorati con motivi ipnotici che scopriamo essere in realtà onde sonore – «quelle di ‘Ti amo’ in 25 lingue diverse», spiega Mpinga. «L’amore è quello che ci fa agire in modo diverso, quel qualcosa in più di cui abbiamo bisogno per cambiare davvero la nostra società, per non dover più sfruttare le persone meno fortunate di noi». Nota per la sua produzione etica e sostenibile, la stilista considera la sua una griffe di slow-fashion. Vogliamo essere sicuri che nella nostra filiera produttiva non venga mai utilizzato lavoro minorile o coatto». Mpinga, che vive e lavora a Nairobi, ha iniziato a creare abiti nel 2011, lanciando la griffe vera e propria nel 2015. «Direi che la mia cliente tipo va dai 28 anni in su. È una donna che si conosce molto bene», dice. «Impossibile indossare i miei capi senza che nessuno ti noti, perché hanno un grande impatto, fin da subito».

L’innovatrice – Sarah Diouf Sarah Diouf, nativa di Dakar, ha lanciato il suo brand, Tongoro Studio, solo nella primavera del 2016, ma sta già attirando l’attenzione  di molti – fra cui  Beyoncé – con i suoi modelli audaci e trasparenti. Diouf è stata fra i primi talenti emergenti ad apparire sulla pagina Instagram @vogue quest’anno, ma la di là del glamour e delle apparenze , c’è una  businesswoman con una strategia a prova di bomba e un grande desiderio, quello di far diventare “Made in Africa” un simbolo di qualità ovunque nel mondo. «Più o meno cinque anni fa  abbiamo cominciato a osservare un gran numero di stilisti africani emergenti, ma tutte le griffe che mi piacevano si erano posizionate sul mercato come brand di lusso», afferma la stilista trentenne, ex  studentessa della Inseec Business School di Parigi. «In un momento in cui il mercato non era ancora strutturato, ho pensato che se vogliamo che la gente scelga di provare la moda africana, dobbiamo invogliarla anche con dei prezzi allettanti». (L’abito di Tongoro che Beyoncé portava sul suo yacht in Italia costa 120 sterline). E invece di essere alla mercé dei  buyer, Diouf ha reso Tongoro una piattaforma e-commerce. In partnership con DHL, il brand spedisce i suoi prodotti in tutto il mondo in 5 giorni lavorativi – il che «risolve un problema di accessibilità per quanto riguarda la moda africana». E adesso Diouf vuole lanciare una app – e cita il malfunzionamento di YouTube del 16 ottobre come motivo ulteriore per rendere il suo business il più autonomo possibile.

Il padre del punto a rovescio – Laduma Ngxokolo di MaXhosa

Nativo del gruppo etnico degli Xhosa, in Sudafrica, il 31enne Laduma Ngxokolo ha sperimentato la cerimonia d’iniziazione maschile ulwaluko a 19 anni. Il rituale, che comporta la circoncisione, seguita da un mese di vita solitaria nelle zone rurali, durante il quale gli iniziati danno via tutti i loro abiti e ricominciano a crearsi un loro guardaroba tutto nuovo, ha avuto un impatto molto forte sullo stilista, che ha scelto di sostituire tutti i suoi abiti all’occidentale con indumenti che rendessero omaggio alla sua cultura. Poco tempo dopo, all’università, ha cominciato a inserire i ricami di perline Xhosa sulla maglieria, mettendo a frutto le tecniche di lavoro a macchina che sua madre gli aveva insegnato quando era un  teenager: così è nato MaXhosa (protagonista nel 2015 di Palazzo Morando). Oggi il brand di knitwear dà lavoro a un team di 30 persone, e Ngxokolo supervisiona l’intero processo, dall’acquisto delle fibre grezze in loco fino alle tinture ‘su misura’ e, ovviamente, alla  realizzazione delle sue creazioni Made in South Africa in lana e mohair dai disegni vivaci. Sono poi seguiti riconoscimenti, l’interesse dei buyer internazionali e una borsa di studio alla Central Saint Martins di Londra, oltre a una linea di tappeti per l’attesissima collezione di articoli di design africano Överallt di Ikea, che verrà lanciata il prossimo marzo. «È il primo passo nella direzione giusta», dice riguardo a un settore che oggi riconosce effettivamente i meriti di Paesi a cui si è ispirato per così tanto tempo. «Il prossimo passo sarà realizzare questi prodotti direttamente in Africa».

Testo di Seb Emina e Liam Freeman