Quindi la Libia è un “porto sicuro”?

Salvini dice di sì, ma la maggior parte degli organismi internazionali la pensa diversamente. Come un termine del diritto internazionale sta monopolizzando le discussioni sulla nostra attualità politica

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Da quando il tema della gestione dei flussi migratori è entrato in pianta stabile nell'agenda di governo – vale a dire dall'insediamento del governo Gentiloni e più prepotentemente con il giuramento dell'esecutivo attualmente in carica – abbiamo imparato a familiarizzare con il concetto di porto sicuro, un termine mutuato dal diritto internazionale ma ormai totalmente sdoganato anche nella cronaca politica.

Il porto sicuro secondo Salvini

Da tempo il ministro dell'Interno Matteo Salvini sostiene che la Libia sia un paese affidabile, in grado di soccorrere i migranti in mare e di accoglierli sulle proprie coste senza alcun pericolo per la loro incolumità. Per corroborare la sua tesi, il leader della Lega cita l'atto con cui nel giugno del 2018 Tripoli ha ufficialmente iscritto nel registro dell'Imo, l'Organizzazione marittima internazionale, una propria zona Sar (Ricerca e soccorso), completando così il processo di ratifica della **Convenzione di Amburgo **avviato nel 2005.In più, sempre secondo Salvini, la correttezza delle operazioni a terra sarebbe garantita dall'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni che con il suo personale si occupa di monitorare il rispetto dei diritti umani nei porti di Tripoli, Homs e al-Zawiya.

La posizione del vicepremier – e quindi quella dell'intero esecutivo – è stata per la prima volta messa nero su bianco in un documento del Viminale solo lo scorso 18 marzo, nell'aggiornamento della **“Direttiva sulla sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell'immigrazione illegale” **seguito alla vicenda della nave Mare Jonio. Nella direttiva Salvini fa riferimento a una comunicazione avvenuta tra il direttore generale per la migrazione e gli affari interni della Commissione europea Paraskevi Michou e il direttore di Frontex Fabrice Leggeri, in cui si sottolinea la “piena responsabilità giuridica e operativa della Libia nel controllo delle frontiere e nel salvataggio delle vite umane in mare”.

L'individuazione di una zona Sar libica si è rivelata particolarmente preziosa per rendere operativa l'azione di contenimento dei flussi migratori messa in atto dall'allora ministro dell'Interno Marco Minniti, ma non è in alcun modo sovrapponibile al concetto di porto sicuro. Nel 2017, infatti, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni firmò l'ormai famigerato memorandum d'intesa con il governo di Tripoli, un documento con cui il premier libico **Al Sarraj **si impegnava a pattugliare costantemente le coste del paese africano per ridurre il numero delle partenze. In cambio, il governo italiano acconsentiva a fornire alla cosiddetta *Guardia costiera libica *mezzi e attrezzature, tra cui motovedette e navi.

È soprattutto grazie a tali forniture, dal valore complessivo di 800 milioni di euro, che la Libia può oggi controllare l'area Sar che si estende da Zuara a Tobruch, una zona di ricerca e soccorso che un'inchiesta di Repubblica ha definito “una finzione burocratica”, e in cui tra le altre cose si è svolta l'odissea di Josefa, la donna camerunense abbandonata in mare dalle motovedette libiche e salvata dalla nave della Ong Open Arms.

Cosa non quadra nell'interpretazione di Salvini

A prevedere che lo sbarco debba avvenire in un porto sicuro – in gergo tecnico Pos, Place of safety – è la Convenzione di Amburgo, la stessa che ha istituito le zone Sar. Tra le sue linee guida si legge: “*Un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”. *

Il nodo più controverso riguarda proprio il rispetto dei diritti umani, in un paese che non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e che dal 2011 vive una guerra civile che in queste ore minaccia di sfociare per la terza volta nello scontro armato. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato alla fine del 2018 e già acquisito dagli investigatori della Corte penale internazionale dell’Aja, i rifugiati presenti nei centri di detenzione libici – a tutti gli effetti delle carceri di stato in cui vengono rinchiusi i migranti privi di documenti – sono ancora oggi sottoposti a “orrori inimmaginabili”.

Dello stesso parere è anche l'Oim, l'organizzazione citata da Salvini come garante del rispetto dei diritti dei migranti, che per mezzo del suo direttore generale António Vitorino ha denunciato che “i migranti, compresi uomini, donne e bambini che sono detenuti in condizioni spesso subumane, la Libia non è un posto sicuro per rimpatriare i migranti che hanno tentato e fallito per raggiungere l'Europa”.

Insieme a Onu, Oim e molteplici associazioni umanitarie – che hanno accesso ad appena tre centri di detenzione tra i 19 gestiti dal governo libico, mentre non esiste alcun tipo di controllo su quelli ufficiosi – contro la decisione di considerare la Libia un porto sicuro si è espressa anche la Commissione europea.