Caro Salvini, ecco perché i cambiamenti climatici hanno a che fare con le migrazioni

Il leader della Lega ha detto su Facebook che i cambiamenti climatici vengono usati "per legittimare l'immigrazione clandestina", ma lo ha fatto citando un documento che dice tutt'altro. E che c'entra poco con l'Italia

(Foto: Michael S. Yamashita/Getty Images)

Lo scorso lunedì 19 marzo la Banca mondiale ha pubblicato un lungo rapporto dal titolo Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration, dedicato al complesso tema delle migrazioni indotte dai cambiamenti climatici. Il documento, che avevamo già commentato qui su *Wired *e che è scaricabile da qui in formato pdf (il file pesa oltre 63MB), è la sintesi raccontata in più di 200 pagine della situazione attuale e delle prospettive future riguardo all'intreccio tra variazione delle condizioni climatiche, sviluppo economico e flussi migratori. L'auspicio di chi lo ha redatto è, evidentemente, che lo sviluppo di politiche volte a contrastare e contenere il cambiamento climatico in corso possa ridurre anche l'impatto sociale di questo fenomeno epocale, riducendo il numero di persone potenzialmente costrette a spostarsi entro il 2050 da oltre 140 milioni a una quarantina di milioni.

In Italia i contenuti del documento sono stati raccontati anche da La Stampa, in un articolo ricondiviso – tra gli altri – dal leader della Lega Matteo Salvini, che in un post pubblicato sulla propria pagina Facebook ha sostenuto che si trattasse di una manovra per tentare di giustificare i flussi migratori irregolari. "Pazzesco sfruttare un tema serio come l'ambiente per legittimare l'immigrazione clandestina", si legge nel breve commento di Salvini scritto il 24 marzo e ripreso anche da Bufale un tanto al chilo, con accanto l'hashtag #stopinvasione.

Tuttavia la tesi del legame tra il rapporto della Banca mondiale e il fenomeno dell'immigrazione clandestina italiana cozza con diversi elementi di carattere tecnico-scientifico, tra l'altro ben dettagliati sia nel documento originale sia nella versione divulgativa proposta da La Stampa allegata al post.

1.Le migrazioni indotte dai cambiamenti climatici sono un dato di fattoUna volta assodato che stiamo vivendo in un periodo di rapida modificazione climatica con un progressivo aumento delle temperature medie a livello mondiale, è innegabile che questi cambiamenti abbiano un impatto sulla vivibilità di alcune aree geografiche, costringendo gruppi di persone più o meno ampi a spostarsi verso ambienti più ospitali. Tra i fattori che possono indurre una migrazione climatica ci sono, a seconda dei casi, la crescente desertificazione che rende i terreni agricoli impossibili da coltivare, le difficoltà di accesso all'acqua potabile indotte dall'aumento delle temperature e dall'avanzata dei deserti, l'impatto di eventi meteorologici estremi quali gli uragani o le alluvioni, l'invivibilità di zone già molto calde diventate ancora più roventi, la distruzione di insediamenti costieri dovuta all'innalzamento del livello dei mari e dunque all'erosione delle coste, oltre alla totale sparizione di alcune isole completamente finite sott'acqua. Tra chi ha difficoltà nel reperire acqua, chi non riesce a coltivare cibo a sufficienza per una popolazione (tra l'altro) crescente, chi si è ritrovato letteralmente la casa sommersa e chi non può più sopportare temperature disumane, esistono popolazioni che - del tutto o in parte - sono costrette a spostarsi. Si tratta di un tema di grande interesse sia scientifico sia socio-politico, tanto che da anni se ne parla sia a livello accademico sia sui media.

(Foto: Bruce Dale/Getty Images)

2.Le migrazioni di cui si parla sono perlopiù spostamenti interniDi "migrazioni interne" parla anche lo stesso rapporto della Banca mondiale, che più degli spostamenti da un continente all'altro tratta dei trasferimenti intracontinentali. Come spiega il documento, vengono considerate migranti climatici tutte le persone costrette a spostarsi di almeno 14 chilometri: si tratta, dunque, sia di chi effettivamente passa da un Paese a un altro, ma anche di persone che - semplicemente - si sono trasferite dalle zone rurali alle metropoli poiché incapaci di continuare a coltivare la terra (accade in Messico), che hanno abbandonato la propria isola per raggiungere la parte continentale del proprio Stato, o che si sono spostate un po' più a nord o più a sud (a seconda dell'emisfero) per allontanarsi dalla fascia equatoriale.

3.C'è un collegamento molto debole tra le migrazioni esaminate e l'ItaliaCome ripetuto più volte nel documento, tutto lo studio si concentra su tre aree mondiali ben lontane dall'Europa, ossia l'America latina, l'Asia meridionale e l'Africa subsahariana. Si tratta di regioni dalle quali i flussi migratori verso l'Italia sono nulli o quantomeno meno rilevanti rispetto ad altre aree geografiche quali l'Africa settentrionale e l'est europeo. I tre casi di studio da cui il documento prende il via, in particolare, sono quelli riguardanti Messico, Bangladesh ed Etiopia. Di questi, solo per il Bangladesh c'è una significativa migrazione verso l'Italia, con un numero di migranti annui compreso tra 7mila e 10mila. A fronte di stime migratorie che parlano di decine di milioni di migranti (perlopiù interni, come già ricordato) nei prossimi trent'anni, il ruolo del Belpaese in questo contesto sembra essere del tutto marginale.

Migranti in Messico (Foto: Omar Torres/Getty Images)

4.Il rapporto non prende in esame le politiche sulla clandestinitàLo scopo del documento, ben esplicitato già nell'introduzione, è di delineare lo scenario ambientale e socio-economico che attualmente induce le migrazioni, nonché di suggerire manovre e scelte politiche globali che possano contrastare i cambiamenti climatici o aiutare le popolazioni in difficoltà a sopravvivere dignitosamente anche in aree geografiche diventate poco ospitali. "Aiutandoli a casa loro", direbbe qualcuno, introducendo tecniche di coltivazione innovative, sfruttando le fonti energetiche rinnovabili e ottimizzando i consumi. Nel caso del fallimento delle politiche di tutela ambientale a livello mondiale, poi, gli spostamenti diventerebbero inevitabili e allora si inasprirebbe il problema della gestione di questi flussi migratori. Secondo quanto dettagliato nel testo, il primo problema da affrontare sarebbe la gestione dei confini all'interno di uno Stesso continente, in uno scenario spesso complicato da conflitti militari in corso (basta pensare ad alcune aree dell'Africa centrale). Solo in un secondo momento la situazione potrebbe determinare complicanze anche a livello di migrazioni intercontinentali, tra cui ovviamente c'è anche quella verso l'Europa.

Curioso, però, che un documento redatto per descrivere una situazione problematica nonché per suggerire strategie a medio e lungo termine per ridurre i flussi migratori (dato che annullarli completamente è di fatto impossibile) venga accusato di legittimare la clandestinità. Tra l'altro, non si trova nel testo alcun riferimento all'immigrazione clandestina o alcuna strizzata d'occhio agli spostamenti incontrollati o illegali di persone, ma al contrario c'è l'auspicio che le Nazioni Unite possano individuare standard e protocolli condivisi per la gestione di un fenomeno mondiale di enorme portata.