Perché Salvini dovrebbe essere il primo a preoccuparsi del cambiamento climatico

Sia il ministro italiano che il presidente Usa danno scarso peso al cambiamento climatico. Ma l'innalzamento delle temperature rischia di scatenare verso i Paesi industrializzati, entro il 2050, un flusso migratorio mai visto

Lo scorso 8 ottobre è uscito il rapporto quinquennale dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite. Nel report si sottolinea che la lotta al riscaldamento globale non sta andando bene e che a questi ritmi entro il 2030 l’aumento della temperatura media globale supererà gli 1,5 gradi ritenuti la soglia massima di sicurezza. Lo scenario sarebbe quello di un incremento dei disastri naturali, che andrebbe a impattare pesantemente sulla vita di milioni di persone. Restano dodici anni per scongiurare tutto ciò, un periodo durante il quale sarà fondamentale intraprendere azioni drastiche e dispendiose per ridurre le emissioni di CO2, favorire la transizione verso le energie rinnovabili e rompere la dipendenza dai combustibili fossili. Insomma, non c’è più tempo da perdere sul clima e le notizie che ci arrivano da tutto il mondo confermano che il dramma è già iniziato.

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L’Internal Displacement Monitoring Center sottolinea che nel 2016 i disastri naturali hanno costretto 24,2 milioni di persone a migrare. Uno studio sugli ultimi 30 anni ha sottolineato che nei paesi fondati sull’agricoltura ogni aumento di un grado della temperatura ha portato a un aumento del 5% delle migrazioni. Gli esempi delle tragedie climatiche in corso si sprecano. In Louisiana l’isola di Jean Charles ha perso il 98 per cento del suo territorio per l’innalzamento dei mari e la quasi totalità della popolazione se n’è andata. A Tuvalu, il 9% delle migrazioni tra il 2005 e il 2015 sono state legate a questioni ambientali mentre nelle isole Fiji interi villaggi colpiti da inondazioni sono stati spostati fisicamente nell’entroterra.

Quello dei migranti climatici è un problema che ci riguarderà sempre più da vicino e secondo alcuni studi entro il 2100 si potrebbero avere fino a due miliardi di profughi di questo tipo. A essere interessati saranno soprattutto i paesi in via di sviluppo. Basti pensare al lago Ciad, un’area colpita da desertificazione e dove praticare l’agricoltura - e dunque sopravvivere - è sempre più difficile. Cinquanta milioni di persone qui residenti presto dovranno andarsene, per aggiungersi a quei 25 milioni di migranti sub-sahariani che solo nel 2017 hanno lasciato i rispettivi Paesi a causa di guerre, povertà, persecuzioni.

Chi dovrebbe temere tutto questo, se non i sovranisti dello “Stop invasione” e dei muri e fili spinati per respingere i migranti? Durante una puntata di Agorà di pochi mesi fa, Salvini ha però liquidato così la questione dei profughi ambientali: “Cos'è il migrante climatico? Dove va? Se uno in inverno ha freddo e in estate ha caldo migra? Siamo seri. Ne abbiamo già tanti. Il migrante climatico è anche uno di Milano a cui non piace la nebbia?”. L’operazione è poi proseguita sui social, dove l’attuale Ministro dell’Interno ha sottolineato come il cambiamento climatico sia una scusa usata per legittimare l’immigrazione clandestina.

Quello che però non si è mai visto, né sulle sue bacheche social, né sui suoi interventi in Parlamento, né sul contratto di governo firmato assieme al Movimento Cinque Stelle, è un riferimento deciso alla necessità di combatterlo, questo cambiamento climatico. La parola “clima” non è mai citata mentre i termini “cambiamento climatico” e “fonti rinnovabili” compaiono una sola volta.

Tutto questo ci riporta a Donald Trump, colui che sostiene che il cambiamento climatico non esiste e l’ha bollato come una “cagata”. Uno dei pilastri programmatici dell’attuale presidente americano è la costruzione del muro al confine con il Messico, per frenare il flusso migratorio verso gli Stati Uniti. Ecco, uno studio recente ha sottolineato che il climate change avrà un impatto molto forte sull’agricoltura del Messico ed entro il 2080 fino al 10% della popolazione lavorativa messicana emigrerà. Destinazione: Usa, soprattutto. Sempre gli Usa saranno poi la meta di milioni di profughi ambientali delle isole del Pacifico, in fuga dagli effetti di quel surriscaldamento globale a cui Trump sta dedicando un’attenzione pari allo zero nel suo mandato presidenziale.

Il paradosso è che chi oggi si lamenta dell’arrivo di profughi, è anche chi riduce il cambiamento climatico a un’esagerazione, se non a una montatura. Quello di cui non si rendono conto questi politici, però, è che meno si agirà in tal senso, maggiore sarà il flusso di profughi verso i loro Paesi nei decenni a venire. Oggi le migrazioni climatiche riguardano per lo più piccoli spostamenti interni, ma nel momento in cui l’innalzamento della temperatura dovesse superare gli 1,5 gradi, gli effetti ambientali saranno così devastanti da causare migrazioni transnazionali e transcontinentali.

Secondo la Banca Mondiale, lo sviluppo di politiche volte a contrastare e contenere il cambiamento climatico in corso può ridurre il numero di persone potenzialmente costrette a emigrare entro il 2050 da oltre 140 milioni a 40 milioni. È ora che Salvini, Trump e gli altri politici “anti-invasione” si rendano conto dello stretto legame tra cambiamento climatico e migrazioni e della necessità di inserire l’ambiente in cima all’agenda politica. In questo modo, per una volta, potrebbero mettere le proprie ideologie sovraniste al servizio di una buona causa, la lotta al surriscaldamento globale.