Il parroco: "Niente comunione se ti regalano lo smartphone"

Don Giordano Goccini di Novellara pone un aut aut a genitori e parenti: "Lo smartphone è la tentazione di essere illimitati, di poter comunicare con tutti". Ma il problema non è quasi mai nello strumento

Ci risiamo. Torna a farsi strada, stavolta per la discutibile decisione di un parroco, la tesi secondo la quale il problema stia nello strumento e non, per ricalcare Marshall McLuhan, nel messaggio. O meglio, per portare la faccenda ai nostri giorni, agli ambienti che vi crescono all’interno. L’idea, insomma, che “mettere via quel cellulare” sia la soluzione a gran parte dei rischi e dei mali della generazione iperconnessa (ma lo è la società, mica solo i bambini).

Le cronache raccontano, in una scenetta che sa molto di sceneggiato anni Sessanta in salsa steampunk, che don Giordano Goccini, parroco di Novellara, comune di 13mila abitanti una ventina di chilometri da Reggio Emilia, avrebbe posto a genitori e parenti, in un'uscita fra il serio e l'ironico e all'interno di una riflessione più ampia, una scelta campale: niente smartphone o tablet in regalo ai ragazzi che riceveranno la prima comunione. Se così fosse – e bisognerebbe capire come il parroco intenda verificare concretamente il divieto, ma questa è materia da chiacchiere – il sacramento non sarebbe concesso. Insomma, niente comunione se nel pacchetto c’è l'iPhone.

In effetti 8-9 anni, l’età della prima comunione, è ormai il discrimine. Negli approfondimenti che chi scrive ha svolto con lo psicologo torinese Alberto Rossetti il passaggio della comunione è ormai quello fatidico: è in quella fase che, dagli strumenti più o meno sotto controllo dei genitori (più meno che più, a dirla tutta) come tablet o pc di casa i bambini sbarcano nel mondo della connessione in mobilità. E in fondo, a dirla tutta, non l’ha prescritto il medico che a quell’età occorra avere uno smartphone. Tuttavia gli stimoli e le opportunità, oltre che le ansie dei genitori, sono così elevati che spesso resistere è un’impresa. O una sofferenza a volte discriminante.

A quanto pare don Giordano non sembrerebbe opporsi alla tecnologia (“Il mondo deve andare avanti”, riporta Qn), non siamo insomma dalle parti del vecchio prete contro tutto (anche perché Goccini è nato nel 1970) ma ovviamente gli sta a cuore l’educazione dei giovani: “È necessario educare i ragazzi rispettando i loro tempi. La comunione deve essere celebrata con una certa semplicità – ha spiegato il sacerdote sempre a Qn-Il Resto del Carlino e a TeleReggio - e invece ho l’impressione che quando si esagera con la cornice il quadro non sia granché”.

Una posizione condivisibile per quanto velleitaria: il problema, infatti, non è quasi mai lo strumento ma l’ecosistema che ci sta dentro. Nove, dieci o 11 anni, il punto può non cambiare se genitori ed educatori non si sono “sporcati le mani” preparando il terreno. Cioè cercando di capire anzitutto la grammatica degli ambienti che i ragazzi frequenteranno online e i rischi potenziali acquisendo consapevolezza, ingrediente che spesso manca agli utenti più giovani maestri invece di competenza.

Noi adulti non ci rendiamo conto della mancanza di educazione che c’è – ha spiegato ancora don Goccini, stavolta cogliendo il punto – dobbiamo insegnare ai ragazzi il senso del limite. Lo smartphone è proprio la tentazione di essere illimitati, di poter comunicare con tutti”. E ancora, a *Repubblica, *si spinge sul terreno che più ci interessa: “Regalare lo smartphone significa anche iniziare i giovani ai social. Ma si va anche contro la legge, perché Whatsapp, come tutti gli altri network, richiede un’età minima di 13 anni”.

Dimostra di sapere bene ciò di cui parla, il sacerdote, anche se esce fuori strada: fino al prossimo 25 maggio, con l’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, non c’è infatti alcuna legge che imponga il limite dei 13 anni, introdotto vent’anni fa dal Congresso statunitense e in punto di diritto **inapplicabile in Italia come altrove se non negli Stati Uniti. **Dietro a quei 13 anni non c'è alcun progetto pedagogico ma solo una legge sulla raccolta dei dati ideata a Washington D.C. nel 1998.

Aggiunge poi una constatazione: “I figli dei pochi genitori che sul cellulare decidono di tener duro rischiano di provare una reale sofferenza: se non fanno parte di un gruppo WhatsApp rischiano di essere davvero esclusi. Si tratta di un discorso discriminatorio". Insomma, ben vengano i sacerdoti che si pongono domande simili. “Le ansie devono tenersele le mamme. Il cellulare diventa anche uno status symbol, più per i genitori che per i figli. Ai miei tempi era così per la felpa o il piumino della tal marca, ora è il modello del cellulare. Fra i genitori c'è il bisogno di riempire i ragazzi di segni di distinzione. Lo trovo molto preoccupante" ha concluso don Goccini.

Una posizione, insomma, condivisibile nella sostanza e perfino nella riflessione generale. Ma un po’ velleitaria nell’aut aut posto nello specifico sullo smartphone. Il problema è appunto l’educazione ma dei genitori prima ancora che dei figli, dei professori prima ancora che degli studenti: forse tenere i bambini ai margini dell’ecosistema social per un anno in più può servire a qualcosa a patto che sia del tempo sfruttato da mamme e papà per iniziare a capire davvero i mondi paralleli in cui sbarcheranno, prima o dopo, i propri figli.