Chi esulta e chi trema per il ritorno di Di Battista

Il suo sembra il nome più adatto per sostituire Di Maio, troppo contaminato dalla politica reale, e ricompattare un movimento che rischia divisioni interne come un qualsiasi partito

Sette mesi dopo l’inizio del sogno americano, il viaggio di formazione di Alessandro Di Battista sembra essere finalmente giunto al termine. “Torno a Natale, ho fatto il biglietto” aveva annunciato in un intervento registrato per la piazza di Italia a 5 Stelle, la kermesse che da ormai un lustro prova a tenere insieme le tante anime di un movimento dai confini piuttosto confusi. Ma esiste ancora un minimo comun denominatore in grado di tenere insieme quei mondi così apparentemente distanti tra loro e il suo nome, appunto, è Alessandro Di Battista.

Il suo è considerato il profilo perfetto per un eventuale post-Di Maio, l’exit-strategy ideale nel caso il governo del cambiamento dovesse destare più malumori del previsto. La base lo ama, lo ha sempre amato, perché incarna alla perfezione quel bisogno di discontinuità con il passato che è stato il collante di tutta l’esperienza pentastellata, fin dagli esordi. E poi non si è compromesso, Di Battista. Non ha promosso alcun accordo parlamentare, non ha saturato i telegiornali per giornate intere con photo opportunity sorridenti al fianco di Matteo Salvini. Si è limitato a benedire da lontano il contratto di governo e a sostenere l’amico Luigi, mentre dalle colonne del Fatto Quotidiano vergava reportage infuocati dal Sudamerica, che tra le righe nascondevano goffamente un tentativo di raccontare la sua idea di mondo e di Paese.

Dall’altra parte dell’oceano Di Maio arrancava, cercando una quadratura ad un cerchio che nella maggior parte dei casi finiva col tradursi in un compromesso al ribasso con l’ormai ex-nemico leghista. E lui, dal Guatemala, a narrare di sviluppo sostenibile, automazione e incomunicabilità. Di Maio a Cernobbio approcciava una complicata opera di mediazione col tessuto economico-industriale italiano, stretto nel doppio petto, e Di Battista macinava like scagliandosi, in ciabatte, contro il mais trangenico che sta distruggendo le vite dei contadini messicani. Il Movimento 5 Stelle, dicono i sondaggi, ha lasciato per strada sette punti in cinque mesi, mentre Matteo Salvini pare aver più che raddoppiato i suoi consensi. Alla Casaleggio Associati sanno bene che ogni scricchiolio nella compagine di governo equivale ad un passo nella direzione in cui alla fine potrebbe essere necessario scegliere un frontman senza giacca.

Ma Di Battista è molto più che un candidato premier di scorta, è soprattutto un uomo di partito. Per la prima volta nella storia il Movimento 5 Stelle ha al contempo un timido accenno di minoranza interna e un esponente in grado di guidarla, Roberto Fico. Con l’avanzare della legislatura, il numero di malpancisti è destinato ad aumentare - è nell’ordine delle cose - mentre la leadership del presidente della Camera piace molto a quella parte dell’elettorato che non stravede per le misure di impronta salviniana. In quest’ottica Alessandro Di Battista è la figura in grado di serrare le fila, soffocare le nascenti aspirazioni di Fico – che già aveva sofferto il diktat che non gli aveva permesso di partecipare alle primarie per la scelta del candidato premier – e porsi come punto di riferimento dell’ala movimentista dei 5 Stelle, in un momento storico in cui persino il Partito Democratico potrebbe essere tentato dall’idea di aprire un dialogo col partito fondato da Grillo, in ottica di un governo parlamentare, nel caso in cui la situazione dovesse partecipare.

Alessandro Di Battista, l’uomo che aveva promesso al Salento di bloccare il Tap in due settimane, è al momento la migliore assicurazione sulla vita del partito che quella promessa l’ha infranta. L’armistizio scadrà il 24 dicembre, per quel giorno sarà meglio che il Movimento 5 Stelle capisca cosa vuol fare da grande.