Cosa succede se un governo non salva una banca?

Il governo mette in salvo Banca Carige, ma non avrebbe potuto fare altrimenti: senza cappello pubblico avremmo avuto bail-in, corsa agli sportelli e rischio contagio per tutto il sistema

Con un consiglio dei ministri convocato un po' a sorpresa lunedì 7 gennaio il governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte ha messo in sicurezza Banca Carige, l'istituto simbolo di Genova commissariato dalla Banca centrale europea il 2 gennaio 2019.Il governo non ha perso tempo. Durante il consiglio dei ministri-lampo (durato appena nove minuti), l'esecutivo ha garantito l'emissione fino a 3 miliardi di nuovi titoli obbligazionari da parte della banca ligure e si è riservato la possibilità di entrare nel capitale azionario dell'istituto con un investimento da un miliardo di euro, da spendere se le cose dovessero precipitare e diventasse necessaria una ricapitalizzazione precauzionale imposta dall'Europa.

Di fatto, Carige è stata messa in salvo dal governo composto da Movimento 5 stelle e Lega. Se la banca non avrà soldi per ripagare le obbligazioni vendute in questi mesi agli investitori ci rimetterà lo stato che si è detto anche pronto a diventare socio dei banchieri pur non far saltare Carige. Le scelte del governo ricalcano quelle fatte nel passato recente, quando un esecutivo di altro colore ha gettato il salvagente a Monte dei Paschi di Siena. E non è solo una questione sostanziale: il decreto varato d'urgenza lunedì, come ha notato Il Sole 24 Ore, anche nel linguaggio è parzialmente identico a quello firmato due anni fa da Paolo Gentiloni per salvare la storica banca senese (il ministero dell'Economia oggi è azionista forte di Mps e ha tra le mani il 68% del capitale sociale che dovrà essere dismesso entro il 2021).

Politici diversi, ma decisioni simili giustificate dall'impossibilità di lasciar fallire una banca in assenza di un compratore privato forte. L'opzione del mercato resta sempre la numero uno in caso di crisi bancaria, ma se non c'è nessuno che è disposto a scommettere su un'impresa decotta, scattano i meccanismi di risoluzione per evitare un pericoloso effetto-domino. Con il suo intervento su Carige – così come era nelle intenzioni quello precedente su Mps, al tempo tanto osteggiato dai grillini – il governo permette all'istituto di avere più tempo per trovare nuovi azionisti e partner industriali disposti a sostenere le attività dell'istituto in difficoltà. Ma nel frattempo l'esecutivo evita che a pagare il conto siano subito azionisti e risparmiatori. Infatti, che succede se non ci pensa lo stato?

Gli strumenti di risoluzione: il bail-inSenza la protezione governativa, estesa fino alla possibilità di ingresso del Mef nel capitale della banca, i primi a dover pagare nell'ambito del processo di risoluzione sarebbero infatti i risparmiatori che hanno investito nella banca. Con la scelta del governo Conte viene scongiurata la necessità di condividere con loro i deficit di capitale attraverso il bail-in. La formula indica lo strumento che consente ad una banca in risoluzione di trovare le risorse necessarie per andare avanti azzerando, nell'ordine, azionisti, obbligazionisti subordinati e obbligazionisti tradizionali.

Se poi i fondi raccolti non dovessero bastare, potrebbero essere anche colpiti anche i titolari dei depositi sopra i 100mila euro. "Il bail-in" – spiega Banca d'Italia – "consente alla banca di continuare a operare e a offrire i servizi finanziari ritenuti essenziali per la collettività; dato che le risorse finanziarie per la stabilizzazione provengono da azionisti e creditori, non comporta costi per i contribuenti". Certo, il prezzo politico da pagare diventa enorme: in Italia una crisi bancaria gestita con un meccanismo molto simile a quello previsto dal bail-in è stata la risoluzione di Banca Etruria. È costata zero alla fiscalità generale, ma molto in termini politici per Matteo Renzi e Maria Elena Boschi.

Nel caso di Carige, azionisti e obbligazionisti subordinati potrebbero essere azzerati in futuro se alla fine il governo dovesse davvero diventare azionista dell'istituto, come previsto dal testo approvato dal Consiglio dei ministri. Si chiama burden sharing – condivisione dei rischi – ed è uno dei vincoli imposti dalla normativa comunitaria per dare il via libera all'intervento pubblico nel capitale di una banca. A differenza di quanto accaduto con altri istituti, però, l'impatto sociale potrebbe essere meno dirompente del passato. Carige viaggia sull'orlo della crisi da mesi e in parte ha già scontato le sue difficoltà sul mercato: sospesa in Borsa da inizio anno, l'ultimo prezzo in Piazza Affari era di 0,0015 euro per azione; secondo alcune stime, non dovrebbero più esserci obbligazioni subordinate in mano agli investitori retail.

La famosa (quanto dannosa) corsa agli sportelliAl di là dell'impatto su azionisti e obbligazionisti, il mancato cappello pubblico nell'ambito di una crisi bancaria avrebbe potuto fomentare il panico tra i risparmiatori, accelerando la corsa agli sportelli dei depositanti indotti a ritirare i propri soldi pur di salvare i risparmi. Scelta impulsiva e dannosa perché amplifica la crisi di liquidità dell'istituto che si ritrova senza contanti. Dal punto di vista della sicurezza dei risparmi è poi del tutto inutile per la stragrande maggioranza dei clienti, che anzi si esporrebbero al rischio-furto. Se infatti chi ha più di 100mila euro su un unico conto bancario potrebbe – in linea teorica – perdere parte del proprio gruzzoletto in caso di risoluzione, tutti gli altri – da 99.999 euro in giù – possono sentirsi al sicuro perché i risparmi sono protetti dal sistema di garanzia dei depositi e non rientrano mai nei processi di risanamento. Sono esclusi dai meccanismi anche tutte le passività garantite, così come i contenuti delle cassette di sicurezza che restano lì, blindate, anche con i libri in tribunale.

Scongiurare il contagioUno degli effetti di una messa in sicurezza pubblica è quello di scongiurare il contagio tra istituti di credito. Se una banca va in difficoltà è molto facile che possa tirarsi dietro piccoli competitor e a cascata gli effetti possono essere dirompenti anche per chi non si occupa di finanza. Con un sistema bancario debole a soffrire non sono i banchieri, ma le imprese che avranno difficoltà nell'accesso al credito e dovranno bloccare pagamenti a fornitori e investimenti per crescere. Aumenterebbe esponenzialmente anche il rischio paese, con l'Italia – in questo caso – che potrebbe essere percepita dagli investitori internazionali come meno solida e per niente attraente.