Strano a dirsi, ma il Partito democratico non è mai stato così unito

Abbiamo analizzato le 38 mozioni congressuali della storia della sinistra italiana, dal Pci al Pd: posizioni sempre meno "di sinistra", ma in vista del congresso il partito sembra aver ritrovato la coesione

(foto: Vincenzo Livieri/LaPresse)

di Andrea Ceron (Università degli Studi di Milano)

Si sono chiuse le votazioni tra gli iscritti del Partito democratico in vista del congresso nazionale e, alla luce di questi primi risultati, la convenzione nazionale si è riunita per dare avvio all’ultima fase delle consultazioni. Si concluderà il giorno 3 marzo, quando le primarie determineranno (salvo sorprese) l’elezione del segretario e della nuova assemblea nazionale. Si tratta di un congresso con tanti candidati e tante candidature. Ben sei sfidanti (Zingaretti, Martina, Giachetti/Ascani, Boccia, Corallo e Saladino) hanno preso parte alla prima fase, quella avvenuta nei circoli e riservata ai soli iscritti al partito; ma durante il percorso verso il congresso e prima dell’ufficializzazione delle candidature altre tre personalità di spicco (Damiano, Richetti e Minniti) avevano annunciato, salvo poi ritirarsi, l’intenzione di scendere in campo.

In quest’ottica, il congresso Pd può apparire come l’ennesimo esempio delle frammentazioni interne alla sinistra (e al centrosinistra), ma forse non è esattamente così. Per capirlo, abbiamo ricostruito (in una sorta di inedita 20 years challenge) la storia degli ultimi 12 dibattiti congressuali organizzati, tra il 1989 ed il 2019, dal Pd e dai suoi predecessori, Pci e Pds/Ds. Attraverso tecniche automatizzate di analisi del testo (che permettono di misurare le relative distanze tra diversi documenti, in base al contenuto e al linguaggio utilizzato), abbiamo analizzato 1500000 parole contenute in 38 mozioni congressuali, ponderando poi i risultati per i voti ottenuti da ciascuna mozione. Questa analisi permette sia di cogliere la posizione ideologica media del partito dopo ciascun congresso, sia di misurare il livello di divisione interna, dato dalla frammentazione in termini di candidati e voti, ma anche, e soprattutto, dalle diversità ideologiche tra le diverse correnti.

Quali risultati emergono? Dal grafico, il dato più evidente riguarda lo spostamento del partito, nel corso degli anni, verso posizioni moderate: convergenza verso il centro che tocca il suo apice nel 2013, con l’elezione di Matteo Renzi alla segreteria. Nel percorso dal Pci al Pd, passando per i Ds, si nota un costante tentativo di smarcarsi da posizioni di sinistra. Unica eccezione il 2009, quando la vittoria di Pierluigi Bersani alle primarie riportò temporaneamente il partito su posizioni più tradizionali.

I dati confermano che il Pd di Nicola Zingaretti sarebbe più a sinistra rispetto all’apogeo renziano del Pd 2013.Ma nonostante le posizioni espresse da Zingaretti, la sua eventuale vittoria congressuale sarebbe mitigata dalle resistenze degli altri candidati, generando quindi dubbi sulle reali possibilità per il partito di cambiare radicalmente pelle. Niente a che vedere, insomma, con quanto accaduto al Labour dopo la vittoria di Jeremy Corbyn o al Partito socialista francese con Benoit Hamon.

Un altro dato interessante è che, nonostante l’elevato numero di candidature contrapposte, la divisione interna al Pd è oggi ferma a un livello piuttosto ridotto rispetto al recente passato. In questi mesi le correnti si sono in parte rimescolate, tanto che i tre candidati principali, Zingaretti, Martina e Giachetti, dal punto di vista ideologico e dei contenuti finiscono per assomigliarsi. Non a caso la reazione di Zingaretti e Martina alle recenti aperture al dialogo auspicate da D’Alema è stata decisamente simile. Solo Boccia e Saladino, schierati su posizioni decisamente particolari, sembrano essere un corpo estraneo rispetto al partito. Siamo perciò lontani dalle forti divisioni emerse nel 1989 o nei congressi dei Ds del 2005 e 2007 (con la scissione del correntone) e del Pd nel 2007 e 2009 (quando fu Rutelli a lasciare il partito). Nel 2019 l’indice di divisione interna è infatti pari a meno della metà di quanto registrato nel 2013, quando la distanza ideologica e politica tra la sinistra interna e i renziani era evidente, tanto da produrre, a pochi anni di distanza, la scissione della corrente di minoranza.

Per strano che possa sembrare, il Partito democratico sembra oggi aver ritrovato una certa unità. Sia nel 2017, quando il congresso si svolse pochi mesi prima delle elezioni (e le pressioni a mostrarsi uniti, dopo la scissione, divennero inevitabilmente maggiori), sia oggi, con il Pd all’opposizione, l’analisi delle mozioni congressuali racconta un partito che cerca di lasciarsi alle spalle litigi e divisioni. Quanto questa unità possa durare è difficile dirlo. Molto dipenderà dalla capacità delle élite politiche di prendere decisioni in modo consensuale, nonché dalle scelte dei renziani (che solo pochi mesi fa venivano considerati propensi a seguire l’esempio di Emmanuel Macron, ma che durante questo congresso si sono mossi in modo piuttosto interlocutorio e a ranghi sparsi, nascondendo o provando a nascondere i propri “mal di pancia”). I prossimi mesi ci diranno se questa unità sia reale, o solo una strategia di facciata.