Che fine ha fatto Alessandro Di Battista?

Rientrato in patria da poco più di due mesi, il leader carismatico del M5s è sparito dai radar: fuori anche da Villaggio Rousseau, è pronto a ripartire per il Congo. Ascesa e caduta di un capopopolo

(Foto: Fabrizio Corradetti/LaPresse)

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Neanche il ritorno in patria dell’ayatollah Khomeyni, il 31 gennaio del 1979, venne celebrato dalla popolazione iraniana con tanto giubilo. D'altronde, del ritorno in Italia di Alessandro Di Battista, revolucionario low cost del Movimento 5 stelle, si parlava già prima che partisse. All’inizio di quei sette, lunghi mesi iniziati lo scorso giugno che, con la famiglia al completo, l’hanno portato a percorrere le terre alla “fine del mondo”, per dirla con le apocalittiche parole di papa Francesco: 16.718 chilometri in bus attraverso 9 paesi, e un budget di spesa di appena 19mila euro.

Il pasionario dei grillini, l’uomo delle campagne elettorali impossibili in motorino, il volto da combattimento, il rappresentante d’istituto che tutti avremmo voluto, è stato considerato per troppi mesi l’asso nella manica di un Movimento piegato (e piagato) dall’alleanza con la Lega di Matteo Salvini. A tratti, mentre il nostro solcava le terre centroamericane inseguendo i suoi sogni di voce di corrispondenza degli ultimi del pianeta, qualcuno immaginava per lui addirittura un ruolo salvifico. Lo si trasfigurava in profeta, in vate, nell’anticristo (dove il cristo era evidentemente il Salvini tutto Nutella e polizia) che avrebbe ricondotto un movimento in crisi su troppi fronti (la Tap, la Tav, le Triv, l'evergreen dei bonifici taroccati) all’originaria virginità. Quella dove uno valeva uno, i vaffa ancora si potevano dire e tutti quanti erano un sol Rousseau.

L’aspettativa è salita dunque alle stelle per molti mesi. Vedrete, quando tornerà Dibba! si sentiva rimbombare dai crocchi grillini, un po’ in attesa un po’ disillusi dai movimenti doroteiani del capo Di Maio, fra le immondizie della Capitale e le sevizie della legge di bilancio. Ma sempre speranzosi dello spirito del loro subcomandante, infine riapprodato nelle terre natie alla fine dello scorso dicembre, giusto in tempo per le festività natalizie. Il messia della decrescita felice era di nuovo fra noi.

Qualcosa, però, non dev’essere andato per il verso giusto. Dopo l’accoglienza fra le nevi, infatti, è calato sul fuoriclasse capitolino il gelo dell’irriconoscenza. L’alleanza della creatura che aveva affidato alle cure dell'amico Di Maio col Carroccio si dimostra più ferrea che mai. Così, qualsiasi posizione la metta in crisi, oltre il quotidiano braccio di ferro delegato al solo ex gemello del gol, è diventata proibita.

Eppure Dibba ci ha provato, nei primi 60 giorni in patria, a sferrare qualche colpo allo sgradito partner che pochi anni prima attaccava nell’ormai seminale videoclip intitolato “Smontare la lega in cinque minuti” (datato 9 marzo 2015). Lo ha fatto con quel “Salvini non rompa i coglioni” sulla Tav, invitando il ministro dell’Interno a tornarsene da Berlusconi.

Ci ha provato, cambiando fronte, anche con le mosse a sorpresa che tuttavia devono essergli costate carissime: cioè le comparsate con le anonime rappresentanze dei gilet gialli, i casinisti transalpini. Nelle foto in gita francese lo si vede in piumino, fido scudiero dell’amico-nemico vicepremier Luigi. Era l’inizio di febbraio, e quello sfortunato incontro con uno dei leader che sognava la guerra civile per le strade parigine ventilando il golpe, quel Christophe Calenchon accusato in patria di xenofobia e islamofobia, si risolse in un clamoroso testacoda diplomatico con l’Eliseo, aggiustato solo grazie agli spuntati arnesi del povero preside Sergio Mattarella. Evidentemente Dibba ha perso il tocco magico, smarrito nelle energie spese nel buen retiro della sua Macondo immaginaria.

Sono stati sessanta giorni di passione per il fu redentore. Poco più di due mesi in cui l'ex deputato ha provato a muoversi su ogni fronte, a trovare spazi come un attaccante che si avventa in ogni modo sulla palla: di testa, di tacco, col piede non suo, fra veroniche e rabone, sprint e storte alle caviglie. Per esempio rispolverando il vecchio adagio degli stipendi di Bruno Vespa e Fabio Fazio, formula un tempo dal risultato garantito ma superata oggi a destra, ancora dai leghisti (che quello stipendio, al conduttore di Che tempo che fa, non vorrebbero neanche più accreditarlo). Neanche col grande classico della kasta il fascino dibattistiano di una volta è riuscito a sfondare il muro di gomma della comunicazione grillina, che crea e disfa fenomeni a suo piacimento.

Così di Dibba si sono perse le tracce da oltre un mese. Sparito. Roba da foto sulle confezioni del latte americane. Non si capisce quanto di propria volontà e quanto per imposizione, quanto per scoramento individuale o quanto per ostracismo, ma Alessandro Di Battista è scomparso. Fosse una puntata di Chi l'ha visto, gli ultimi segnali si registrerebbero ancora sulla Tav, intorno al 13 dello scorso febbraio. Poi più nulla: Dibba ha fatto la fine di un film di Nanni Moretti. Ormai si nota più quando non c’è: la sua assenza all’ultima kermesse pentastellata, quel Villaggio Rousseau andato in scena lo scorso fine settimana a Milano, ha fatto in effetti molto rumore.

Da lì, con la firma del nuovo atto costitutivo di associazione denominata “Movimento 5 stelle”, che raccoglie l’eredità delle diverse realtà dell’orbita grillina dalla nascita, è passata la sua formale estromissione. Che è successo? La strategia d’assalto del fu leader carismatico deve aver fatto più danni che altro a un partito che, proprio in coincidenza col suo rientro, ha iniziato a perdere terreno nei sondaggi. Temi, modi, battaglie sono cambiati dal matrimonio con la Lega: ogni scelta è ora ponderata, rimandata, affidata al metodo Conte, sedata nel tempo da farse, rinvii e ghirigori linguistici. Al massimo, rimpallata ai sondaggini online. Non c'è più spazio per le sparate da nostalgici dell'eskimo.

Non è un caso che soci fondatori della nuova associazione risultino i soli Luigi Di Maio e Davide Casaleggio. Insaziabili proci che durante la traversata del turbolento Dibba-Odisseo lo hanno depredato anche della sua qualità più preziosa: il richiamo delle folle. Ci sono riusciti cambiandogli il mondo intorno. Beppe Grillo, il padre putativo di Alessandro, rimane come garante. Il “patto del bombardino”, siglato a Capodanno col fratello coltello, si è sciolto con la neve delle Dolomiti. Velleità per smaltire il cotechino.

Un nuovo fronte attende ora il leader disarcionato, Don Chisciotte in lotta contro i mulini a vento delle indennità parlamentari. È il Congo, uno dei paesi più poveri e disastrati del mondo, per il quale Di Battista – che già se ne era occupato ai tempi universitari – dovrebbe ripartire dopo una breve e a questo punto spompa campagna elettorale per le elezioni europee di fine maggio. Ultimo capitolo, forse, di una straordinaria storia d’amore finita con i piatti che volano dei coniugi Roses.