Red Zone fa il peggior cinema di guerra dividendo l'umanità in buoni e cattivi

Peter Berg, famoso per le sue scene d'azione, qui dà il peggio di sé con un film confuso e senz'alcun messaggio, a parte quello di un patriottismo spietato e a senso unico. Dal 15 novembre al cinema

zuyg_gzNiZU

La guerra è ovunque nei film di Peter Berg (Deepwater Horizon, Boston - Caccia all’uomo,* ***The Kingdom, Lone SurvivorBattleship). È lui oggi il miglior regista del cinema di guerra: duro e tutto d’un pezzo, rigorosissimo con la mano quando gira, coerente e molto chiaro con la sua visione del mondo. Al suo meglio Peter Berg è l’ultimo regista del cinema di guerra, patriottico e muscolare, non solo in senso cronologico ma anche evolutivo: non fa cinema come i predecessori ma ha la potenza muscolare di Michael Bay (non esattamente come Bay, perché nessuno è come Bay, diciamo che è in quel solco), la schiena dritta di Eastwood (per quanto non ancora la sua umanità) e una tecnica di ferro.

Quando invece non è al suo meglio, Berg fa film come Red Zone - 22 miglia di fuoco, scritto così male che sembra quasi esserne consapevole e cercare continuamente di rimediare. Ad un certo punto, il film ferma la trama per fare un grande riassunto, chiaro, a parole e bene in fila, così che sia possibile per tutti andare avanti e capire cosa sta per accadere. Lo mette in bocca a John Malkovich, leader di una squadra che regola da remoto le Black Ops (operazioni militari segrete), e lo fa senza nessuna vergogna, spiegando a dei personaggi che in teoria già lo sanno, cosa hanno vissuto nell’ultima ora di film. Si potrebbe iniziare a vedere Red Zone da quel punto e capire tutto lo stesso.

È solo uno dei molti momenti in cui si ha l’impressione che Berg ci stia mettendo l’impegno minimo. Non è infatti l’unico regista, negli ultimi anni, a cercare di raccontare come la guerra non sia più quella di un tempo, non si svolga più sul campo, non sia più regolata da quelle dinamiche che ormai conosce anche chi non è mai stato sul fronte. La guerra di oggi è ovunque, è fatta di intelligence e tecnologia, si è mescolata allo spionaggio per diventare una sua versione violenta e sanguinaria, in cui molto spesso sono i civili a farne le spese e nella quale gli stati e le loro banche dati sono obiettivi sensibili.

Qui, uno dei corpi segreti che lavora per la sicurezza dello Stato, deve scoprire la posizione di un carico di cesio, materiale utile ad armi di distruzione di massa. Un testimone sa tutto ma è disposto a parlare solo se lo scorteranno fuori dal suo paese. La battaglia sarà tra i corpi speciali americani e un paese del sud-est asiatico senza nome (un classico in questi casi). Quel che viene raccontato è lo scontro di politica, esercito, civili, agenti segreti e cellule impazzite intorno ad una partita di cesio e all’uomo che sa tutto ma non dice niente.

Altrove sarebbe stata una storia di paradossale amicizia al di là delle differenze (i militari americani e l’informatore asiatico) qui invece per Berg è una questione di patriottismo a senso unico. Tutto lo sforzo di questo film molto confuso va nella direzione della lode allo spirito di sacrificio degli uomini e delle donne che lottano senza che lo sappiamo. Ma è incredibile che per strada, proprio Peter Berg, dimentichi che in un film del genere, in cui è la dimensione dello sforzo umano e fisico a dare l’idea del patriottismo e di cosa ci sia in ballo, l’azione debba essere la parte più curata. Era quello che dava la misura della terribile condizione di Jason Bourne nel perfetto The Bourne Ultimatum, ed è quello che ha sempre sostenuto i film migliori di Berg. Invece qui regna la confusione e l’unica cosa veramente chiara, alla fine, è il piacere e l’immensa soddisfazione (proprio le risate la gioia!) per aver ucciso un nemico dell’America con la forza della tecnologia militare.

Nel cinema di guerra, come in quello d’azione, il senso ultimo di ciò che stiamo vedendo sta proprio nell’azione e nella guerra, in come sono condotte, nel piacere o dispiacere del perpetrare la violenza, nelle cicatrici che questa lascia e nel sacrificio che prevede doverla imporre. Il piacere della vendetta contro chi minaccia di uccidere è territorio del peggior cinema perché è il cedimento agli istinti più bassi, la vendetta personale, invece dell’aspirazione ad una visione più alta, una visione che metta lo spettatore in condizione di rivedere i propri assunti. Peter Berg di solito lo fa. Qui no.