Attacco a Mumbai è prima di tutto cinema catastrofico classico, poi storia vera

Gli attentati del 2008 diventano un film su una strage reale ma girato come fosse un thriller, pieno di suspense e con qualche ingenuità d troppo. Dal 30 aprile in sala

Fa un po’ sorridere che alla base della resistenza delle vittime degli attentati al Taj Hotel di Mumbai del Novembre 2008 ci sia la grande etica da albergatori. Almeno è così che lo racconta Attacco a Mumbai, il film che 11 anni dopo ricostruisce quegli eventi, li spettacolarizza e soprattutto li digerisce nella forma del cinema catastrofico per dire, a sorpresa, qualcosa che il cinema americano ancora non ha il coraggio di affermare quando porta al cinema le sue storie di attentati.

C’è ovviamente Dev Patel al centro di tutto, l’attore indiano più conosciuto nel mondo (quello la cui notorietà curiosamente esplodeva con The Millionaire proprio nel 2008)che qui è uno dei molti camerieri del grandissimo hotel rimasti chiusi dentro durante gli attentati. Lui assieme a buona parte delle cucine e tanti clienti sono il gruppo di persone che seguiamo, quelli che cercano di nascondersi, provano a scappare e cercano di sopravvivere alla minaccia delle persone che si aggirano armate di mitra.

Nonostante lo sembri Attacco a Mumbai non è una produzione americana, è un film che unisce Australia, Stati Uniti e India con un regista australiano e che non fa esattamente il lavoro di Hollywood sugli attentati. In questi anni abbiamo visto infatti come il cinema americano abbia sviluppato verso il racconto degli attentati subiti (dall’11 settembre fino a quelli della maratona di Boston) uno spirito nuovo e originale. Quelle storie sono sempre raccontate per affermare un principio di rinascita: nonostante tutto quello che ci avete fatto noi non ci siamo fatti abbattere, siamo ancora qui. Reduci con arti di metallo, persone che ne ricordano altre, la vita che continua, la lotta contro gli attentatori e le foto dei veri coinvolti oggi, sorridenti. È come se quei film dicessero: “Potete fare esplodere delle bombe e distruggere i nostri corpi ma non vincerete mai, il nostro spirito è più forte”.

Gli americani insomma si raccontano come vittime solo marginalmente, c’è sempre un momento nel film in cui contrattaccano e sviluppano come una piccola guerra con l’attentatore. Qui invece siamo nel clima del puro catastrofico anni ‘70 in cui diverse tipologie umane litigano e faticano a rimanere vivi e scappare dalla minaccia. La vera storia e le vere persone sono raccontate nel momento in cui fuggono, cercano riparo, percorrono tutto l’hotel nascosti. È una storia di suspense e non una di guerriglia, una storia di persone che si aiutano, sacrifici e morti improvvise. In questo Attacco a Mumbai è classico, quasi prevedibile ma mai scontato. Ha il dovere di far morire chi è morto nella vita vera e quindi non tutto va come ci si aspetta.

Per questo allora fa un po’ sorridere come venga iniettata anche una profonda etica albergatrice che nel momento del pericolo riempie i cuori e gli animi di cuochi e camerieri, spingendoli a servire i clienti fino all’ultimo, a non lasciarli soli per mettersi in salvo ma comportarsi come i capitani di una nave che affonda. Sentimentalismo un po’ alla buona che tuttavia non è mai indigesto, Attacco a Mumbai ha il pregio fondamentale di conoscere il proprio genere. Sa di essere un film d’azione in cui la storia vera è un bonus ad una trama che deve saper funzionare anche da sé, come se fosse inventata.

Nel grandissimo racconto degli ultimi 20 anni di attentati fatto attraverso molteplici film questo sembra quello che più di tutti vuole glorificare lo sforzo dei piccoli uomini al servizio della grande struttura, le poche persone che di lavoro servono, lavorano, accomodano che gestiscono i molti clienti stranieri. Non è una storia indiana, ma una che coinvolge tutto il mondo eppure Attacco a Mumbai fa di tutto per farne una questione di orgoglio indiano. C’è dentro la vita e le famiglie degli inservienti, c’è il pregiudizio verso il turbante e il significato di alcuni simboli religiosi, civili e sociali della società indiana. Nonostante sia palesemente un film di grana grossa, non propriamente raffinato, non era per niente scontato che riuscisse a smuovere qualcosa nel pubblico occidentale con un apice narrativo che coinvolge un turbante slegato. E questo merito è quello che fa la differenza tra un film banale e uno riuscito.